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 2025  novembre 26 Mercoledì calendario

Intervista a Patrizia De Luise

«Mi vedo ancora ragazzina che mi arrampico sugli alberi, sbucciandomi le ginocchia, o monto su un piccolo bolide da motocross e scorrazzo sulle colline del Monferrato».

Tutto si potrebbe immaginare incontrando Patrizia De Luise, genovese, classe 1954, tailleur di ottima fattura e orecchini di perle, tranne che sia stata «un maschiaccio».
«Sono cresciuta con un fratello e una miriade di cugini. È stato fatale farmi una certa idea di me».
Oggi Patrizia De Luise è la neopresidente della Fondazione Enasarco, l’ente di previdenza integrativa obbligatoria degli agenti di commercio. Prima donna a ricoprire questo incarico. Così com’è stata anche la prima presidente di Confesercenti, potente associazione delle imprese del commercio, che ha guidato per otto anni.
Della sua vita, si è sempre saputo molto poco. Sposata per due volte, due figli dal primo matrimonio e stop.
Riservata come una vera genovese...
«Essere di Genova incide sul carattere: è una città sul mare, dunque necessariamente permeabile, inclusiva. Ma che sa nascondersi nel dedalo dei suoi vicoli, quando avverte il pericolo».
Che famiglia è stata la sua?
«Unita. E all’antica, quanto a principi. Moderna nella pratica: le donne hanno sempre lavorato. A partire da nonna Maria, rimasta vedova di guerra, con tre figli a carico, e una casa distrutta a Sampierdarena. Nel 1945 si rimboccò le maniche e andò a lavorare all’Ansaldo».
Una famiglia matriarcale?
«Non direi. Mio padre è stato una figura importante. Da operaio generico era diventato un esperto di elettronica talmente in gamba – si favoleggia – da costruire da solo il nostro primo televisore. Con lui non sono mai mancati gli scontri sul piano dialettico. Ma mi ha insegnato come si fronteggiano gli uomini. Da pari a pari».
E cos’altro?
«Che non c’erano differenze tra me e mio fratello. Ciò che contava era che studiassimo, a maggiore ragione io che ero la femmina, e dovevo assicurarmi l’indipendenza».
La moto da cross era di suo padre?
«Sì, ma me la faceva usare, purché non su strada».

Coltivava la sua parte maschile?
«Non solo quella. Una volta, ero adolescente, mi portò da Firenze due collane e un portacipria un po’ barocco. Lì per lì non seppi che farne, ma ne avvertii il fascino: era come se contenessero un messaggio in bottiglia che ho capito dopo».
Quale?
«Papà stuzzicava la mia femminilità, m’invitava a scoprirla: “Non stirare i tuoi bei ricci” diceva. Per il mio compleanno mi ha sempre regalato, tra l’altro, una boccetta del mio profumo preferito. Anche quando oramai era in ospedale, si raccomandò con mia madre perché non me lo facesse mancare».
Parliamo di sua madre.
«Era una piccola artigiana che lavorava capi in cashmere. Sapeva riconoscere quello buono anche soltanto sfiorando una rocca di filato. Consigliava le clienti su quello che le avrebbe valorizzate. Io a vent’anni non ci capivo nulla».
Che faceva allora?
«Studiavo storia e filosofia all’università. Allo stesso tempo ero precettrice in un istituto privato per ragazzi, seguendo quella che mi apparve subito la mia grande vocazione. Mi riusciva così bene spiegare, che incominciai ad aiutarli anche sulla matematica con risultati sorprendenti».
Come riusciva a farsi rispettare dai quasi coetanei?
«Con il silenzio. Più si aspettavano che sbraitassi, e più io restavo zitta a guardarli. Una tecnica che uso tuttora».
Ma ce l’aveva uno svago giovanile?
«All’epoca frequentavo il club Tenco. Studiavamo il cantautorato genovese, e non solo. A me piace cantare, ma sono stonata...».

La sua canzone del cuore?
«Lontano, lontano di Tenco, appunto».
Bella triste.
«La cantavo ai miei bimbi per farli addormentare».

Torniamo a lei che insegna. Perché non proseguì?
«Mio padre era contrario, anche perché per farlo avevo messo da parte la laurea con la tesi già pronta. Ma non ebbi nemmeno il tempo di riflettere, perché mia madre, che aveva aperto un negozio, stette molto male e dovetti prendere in mano l’impresa».
Come andò?
«Fu un battesimo del fuoco. Non avevo manualità, non sapevo scegliere le materie prime, ma ero bravissima a trattare con gli agenti di commercio. E mi venne l’idea di acquistare accessori da vendere. Dopo un po’ le cose hanno cominciato a muoversi».
Si ricorda la prima volta che pensò di avercela fatta?
«Un Natale in cui riuscii a coinvolgere i negozianti della mia strada nella decorazione per le feste: una mia vera passione. Capii che, a differenza dei commercianti che hanno un approccio individuale, il mio era più collettivo. E la sensazione si fece più forte quando cominciai a vincere, appoggiandomi al sindacato di categoria, una serie di battaglie comuni. E intanto i negozi erano diventati tre...».
E l’amore?
«Mi sono sposata presto e ho avuto il primo figlio a 28 anni, senza smettere di lavorare e impegnarmi nel sindacato, grazie all’aiuto di nonna Maria».

Come prendeva le assenze suo figlio?
«Ho insegnato a entrambi i miei ragazzi il rispetto per il lavoro. Venire in negozio a Natale, alle inaugurazioni o quando c’erano da festeggiare i compleanni delle dipendenti, era un rito».
Li ha mai delusi?
«Una volta dovevamo fare un viaggio in Egitto, ma ci abbiamo rinunciato per l’apertura di un negozio. Il guaio è che è successo due volte...».
E l’Egitto?
«Niente, ci andranno da soli».
Alla carriera non ha mai rinunciato?
«Sì, quando mi hanno chiesto di diventare presidente provinciale di Confesercenti, alla nascita del mio secondo figlio, mi sono tirata indietro. Facevo già fatica con il lavoro: allattavo pure andando alle sfilate, e nonna Maria intanto non c’era più».
Il primo matrimonio a un certo punto è finito.
«Era nelle cose. Ma la nostra è stata una “bella separazione”, mi passi il termine. I nostri figli ci hanno sempre portato come esempio presso amici che vivevano la stessa esperienza».
Poi si è risposata.
«Non l’avrei mai detto. Ma l’ho fatto e mi fermo qui».

Invece come sono riusciti a riportarla dentro Confesercenti?
«Con una raccolta di firme. Il che mi ha imposto di chiedermi cosa volessero da me».
E che risposta si è data?
«Che fornissi loro gli strumenti che non potevano permettersi individualmente e trovassi le soluzioni ai problemi comuni».
Un approccio che li ha convinti a nominarla presidente nazionale per ben due mandati. Come donna, si è sentita sempre rispettata?
«Quando non è avvenuto, ho saputo difendermi. Ma, guardandomi intorno, altrove, ho visto spesso comportamenti prevaricanti sulle donne».
Da capo di una grande associazione, cosa ha voluto dire entrare in contatto con le sedi del potere?
«Ha rafforzato in me la convinzione del ruolo che ha la politica come decisore. Per questo il confronto con le parti sociali potrebbe essere più denso e collaborativo».
Il dialogo sociale oggi è un po’ debole?
«Da un po’ di tempo ormai. Ed è un peccato. Vede, noi quando scorgiamo un cliente dietro le nostre vetrine, sappiamo interpretarne i desideri, anche quelli cui rinuncia. Ascoltarci sarebbe importante per contattare la società».
Da pochi mesi rappresenta Enasarco, l’ente di previdenza obbligatoria degli agenti di commercio.
«È stato come tornare a casa e accettare un’altra sfida».
Avverte l’esigenza di una maggiore trasparenza nella gestione dell’ente dopo anni quantomeno complicati?
«Sul piano della trasparenza negli ultimi tre anni sono stati fatti passi decisivi. È nostra intenzione continuare su questa strada e aggiungervi la partecipazione».
Quali altri obiettivi si pone?
«Conoscendo bene i problemi della categoria, bisognerà estendere e allargare gli interventi sul welfare, in linea con la precedente gestione».
Faccia un esempio.
«Abbiamo cominciato con il rafforzamento della polizza sanitaria e, entro fine anno, definiremo le nuove prestazioni, anche attraverso un inedito sondaggio tra gli agenti, in corso in questi giorni».
E quando pensa alla sua pensione, come si vede?
«Ah non mi vedo affatto. Tutti i tentativi di inventarmi un hobby, come il giardinaggio o la ceramica, sono già falliti. Chi si ferma è perduto».