Robinson, 23 novembre 2025
Intervista a Giorgio Cavazzano
Era il 1985, quando sulle pagine del settimanale Topolino, fece la sua comparsa un’idea rivoluzionaria: il primo fumetto “a bivi” del mondo. Ovvero un esperimento narrativo che ha spalancato le porte al lettore, trasformandolo da fruitore passivo a protagonista. Si intitolava Topolino e il segreto del castello ed era stato ideato dallo sceneggiatore Bruno Concina e disegnato dal maestro Giorgio Cavazzano. Era una narrazione non lineare: davanti a ogni sliding doors i lettori potevano scegliere come Topolino e Pippo avrebbero agito, decidendo il percorso e, di conseguenza, anche il finale della storia tra sei possibili. Il successo fu tale da far
nascere una tradizione di storie a bivi scritte dallo stesso Concina negli anni a venire.
La trama si apre con Minnie e Clarabella che, a notte fonda, tornando da una sfilata di moda, si ritrovano sotto la pioggia vicino a un castello abbandonato da cui provengono suoni sinistri e misteriosi. Spaventate, corrono a raccontare tutto a Topolino e Pippo, che decidono di
indagare. Il primo bivio arriva proprio davanti al portone del castello: Pippo propone di aspettare l’alba prima di entrare, mentre Topolino vorrebbe avventurarsi subito. Da qui in poi sta al lettore la scelta che determina lo sviluppo della storia. Oggi, per celebrare i 40 anni, Panini Comics ripropone in un volume da collezione Topolino e il segreto del castello insieme a una raccolta delle migliori storie a bivi pubblicate nel corso degli anni. Abbiamo incontrato il maestro Giorgio Cavazzano a Lucca Comics dopo la celebrazione in memoria dello sceneggiatore e amico Bruno Concina.
Com’era quando lei ha iniziato?
«I primi anni che venivo a Lucca di solito avevo in macchina Silver, ci trovavamo in piazza con Manara e andavamo con le nostre cartelline per cercare di trovare un editore: un altro mondo, davvero...».
Veniamo alla storia. Come ha conosciuto lo sceneggiatore Bruno Concina?
«Ogni anno c’era un raduno con i vari autori Disney. Il primo l’abbiamo abbiamo fatto a Parigi e poi sul Lago Maggiore, a Venezia… Si faceva amicizia, ma soprattutto c’era uno scambio di idee molto importante. Ho conosciuto Bruno proprio la prima volta a Parigi».
Poi ha scoperto che Concina viveva vicinissimo a lei...
«Con i veneziani è molto facile riconoscersi perché si sente la cadenza. Ricordo che c’erano Valerio Held, Luciano Gatto, Romano Scarpa, una bella pattuglia».
Lei è stato un grande innovatore.
«Se nel nostro disegno non c’è una evoluzione continua è un guaio».
So che il mondo Disney non è facile: ha dovuto lottare parecchio per affermare il suo stile...
«Ho rischiato di essere licenziato in uno dei momenti più terribili e difficili della mia vita, dopo il mio matrimonio, il che sarebbe stato un grosso guaio dal punto di vista economico. Perché disegnavo dei personaggi alla mia maniera. Non cercavo di essere originale per forza, ma c’erano novità che i francesi e gli americani avevano già recepito, mentre gli italiani ripetevano le vecchie idee».
Chi erano gli ispiratori?
«Americani come Alex Toth e poi francesi come Uderzo e Moebius, che si chiamava ancora con il suo vero nome, Jean Giraud, prima con Blueberry, poi con le cose sue, più particolari, fantascientifiche. In quel periodo in Francia ho fatto anche per quattro anni il direttore artistico di una rivista settimanale, Pif Gadget. Quando sono tornato in Italia, mi sono accorto che invece la mediocrità era la cosa più apprezzata».
Davvero?
«Eh sì, erano pagine stanche. A me non andava di sottostare a quella rassegnazione, volevo fare qualcosa di diverso, di più dinamico. Finché a un certo punto mi hanno detto: “Guarda che è arrivata una lettera da parte dei legali americani che dicono che tu devi tornare a disegnare in maniera classica"».
E lei cosa ha fatto?
«Io non ho ubbidito. Se mi avessero licenziato, sarei tornato in Francia perché avrei potuto trovare facilmente lavoro. Anche per la Disney francese».
Erano più aperti i francesi?
«Assolutamente sì. Qui la questione era che il direttore del Topolino era una persona molto anziana, Mario Gentilini. Era stato bravo, molto considerato, ma ormai aveva fatto la sua storia. In quel periodo la casa madre della Disney europea aveva sede a Parigi e lì erano decisamente più liberi e questo avveniva anche in Germania e nei paesi scandinavi. Noi invece dovevamo scardinare proprio la vecchia interpretazione».
Ci siete riusciti?
«Eh sì… Ma abbiamo rischiato».
Cosa le rimproveravano?
«Volevano che abbandonassi il mio stile per rifarmi a quello di Carl Barks, che era completamente diverso. Copiarlo per me significava finire in un cul de sac: prova a copiare Hugo Pratt! Se copi Hugo Pratt non potrai mai essere te stesso sarai sempre Hugo Pratt… ma peggio! Perché c’è una filosofia del segno, un’armonia, una poesia che non si può imitare».
Come nacque invece la collaborazione con Bruno Concina?
«Bruno mi chiese se ero disponibile a realizzare delle idee che lui aveva, e che doveva presentare in redazione. Mi disse: “Abitiamo vicini, perché non facciamo qualcosa insieme?”. E così è nata l’amicizia. Bruno era di una sincerità incredibile: se c’era qualcosa che non andava con il sorriso diceva: “Giorgio, guarda che questa non funziona tanto”, e aveva ragione. C’è stata una sintonia perfetta: mi ha fatto capire cosa significava interpretare una parola, una sceneggiatura per trasmettere l’emozione e il sorriso al lettore».
Come è nata l’idea di fare fumetti con delle storie a bivi?
«Non so dire come è nata, posso solo dire che è riuscita molto bene».
Ma era un’idea della Disney o di Concina?
«Di Bruno, assolutamente! Una volta che Gentilini andò in pensione gli subentrò Gaudenzio Capelli, che aveva capito che bisognava cambiare, sperimentare».
È stata la prima a livello mondiale?
«Sì, esatto. Chi l’avrebbe mai detto, noi non ne avevamo neanche idea…».
Di quante pagine erano queste storie pensate da Concina?
«Mediamente di 30. Però, se erano due puntate, anche il doppio: tre mesi di lavoro per me»
E com’era il processo creativo?
«Bruno mi telefonava e diceva: “Guarda che ho appena spedito una sceneggiatura, se ti va di disegnarla mi farebbe piacere”. Allora chiamavo il direttore per farmi affidare quella storia».
Realizzare questa cosa dei bivi non deve essere stato facile, e per di più con sei finali diversi…
«Doveva essere chiaro subito cosa fare. Così abbiamo messo dei bollini molto evidenti, altrimenti il lettore magari sarebbe andato avanti senza capire niente. Questi bollini sono nati proprio sul tavolo di casa sua insomma, lavorando insieme. A quel punto abitavamo entrambi a Mestre e quindi potevo portargli anche delle pagine già inchiostrate per fargliele vedere. Lui abitava proprio vicino ai binari del treno: c’era un rumore tale che ogni volta che passava il treno dovevamo smettere di parlare...».
Purtroppo è venuto a mancare molto presto.
«Mi ha stupito la fine che ha fatto. È stato un colpo fortissimo per me, anche perché la settimana prima voleva comprarmi un quadro, ma io lo volevo tenere. E poi, poco dopo, se n’è andato. Quello che più mi dispiace è che non ha avuto il riconoscimento che avrebbe meritato. Ha fatto qualcosa di originale, di molto difficile e prima di tutti gli altri».
È successo anche con Romano Scarpa, considerato come uno dei più grandi autori…
«Sì, lui a un certo punto è stato messo da parte, anche se oggi viene considerato uno dei più grandi. Tanto che faceva ormai solo qualcosa per il mercato francese. Molto spesso chi decide è più interessato alle vendite che alla qualità delle storie. Questo vale per tutti: sceneggiatori, disegnatori, inchiostratori e vale anche per i redattori».
Tra l’altro, i bivi di Concina non sono legati alla consequenzialità delle azioni dei personaggi come in altri libri game, ma allo spazio-tempo: una cosa incredibile!
«Questo testimonia la capacità che aveva questo uomo: non ho più visto storie così. Magari oggi sono perfette nella sequenza, ma la sua era una visione unica, fatta di poesia».
Lei nel disegnare il mondo marino nel secondo episodio ha fatto una cosa spettacolare.
«Quando Bruno vedeva cose che gli piacevano era pieno di entusiasmo, diceva: “Giorgio, bellissimo. Dai, continuiamo! Faremo capolavori!».