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 2025  novembre 23 Domenica calendario

La nostra cattiva coscienza

Abbiamo sempre bisogno di un buon selvaggio per dare forma e volto a una bontà che non riusciamo a trovare in noi stessi e nella nostra società. Di fatto, questo mito tipicamente illuminista nasce da un mea culpa della nostra civiltà che esorcizza il suo male oscuro creando una figura che rappresenta il rovescio virtuoso dei nostri vizi, la personificazione di un j’accuse lanciato all’Occidente, ormai lontano anni luce dalla natura e quindi da quel fondo creaturale, che ci fa viventi fra i viventi. Come dire che l’uomo esce buono e giusto dal grembo di Madre Natura mentre a guastarne l’indole e i comportamenti è Madre Cultura, che lo rende violento, avido, calcolatore, inautentico. Insomma, le istituzioni “snaturano” la scimmia nuda che a poco a poco, uno step evolutivo dopo l’altro, perde il pelo e acquista il vizio.
È Jean-Jacques Rousseau a metterla in questi termini nell’incipit dell’Émile, il suo trattato sull’educazione, sostenendo che «ogni cosa è buona mentre esce dalle mani del Creatore e ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo». In realtà per il filosofo ginevrino, il selvaggio vive una vita presociale senza infamia e senza lode. Bontà e cattiveria sono per lui categorie morali artificiali, pagelle inventate dalla civiltà per dividere le persone, per classificarle ricorrendo a criteri del tutto soggettivi e relativi, strumentalizzabili e manipolabili. Di fatto finché resta in armonia con la natura e le altre specie, limitandosi alla soddisfazione dei bisogni primari, Sapiens resta al di qua del bene e del male. Insomma, il bon sauvage di Rousseau è il simbolo astorico e atemporale di uno stato di natura che non esiste nella realtà, ma tuttavia è necessario averlo in mente, come una bussola perché l’umano non si allontani troppo dalla sua buona sorgente. Con Denis Diderot, altra grande star dell’Illuminismo, l’idea prende una piega più politica e soprattutto più vicina alla storia e alle cronache del suo tempo, sempre più influenzate dalle scoperte geografiche e dai resoconti di viaggi ed esplorazioni. Diderot nel 1772 scrive addirittura un commento a un fortunato libro di viaggi del barone Louis-Antoine de Bougainville, primo francese a fare il giro del mondo. Il suo Supplément au voyage de Bougainville diventa il bestseller che popolarizza il mito del buon selvaggio, tirandolo fuori dagli ambienti astratti e disincarnati della filosofia per farlo entrare nel dibattito pubblico e nel senso comune. E quel che più conta, Diderot colloca il nobile selvaggio che vive in armonia con la natura in un contesto geografico reale, quello della Polinesia che Bougainville aveva descritto accuratamente nei suoi diari.
Da allora i bellissimi tahitiani diventano il paradigma vivente di un modo di essere umani alternativo a quello degli occidentali. Il coautore dell’Encyclopédie, bibbia del pensiero laico moderno, mette a confronto l’idea di colpa e di peccato cristiani con l’innocenza sensuale dei polinesiani. Ai suoi occhi la nostra civiltà appare una fabbrica di infelicità, frustrazione, repressione. Mentre la grazia senza veli degli abitanti dei Mari del Sud è direttamente proporzionale a quella sorta di libertà primigenia che fa vivere le passioni senza esitazioni e i sentimenti senza pentimenti. Così gli abitanti dei nuovi mondi svelati dalle scoperte geografiche diventano un caso politico e ideologico. E la loro stessa esistenza si trasforma in una contestazione della superiorità della nostra cultura. Nato dal seno della filosofia, il buon selvaggio viralizza la cultura settecentesca, ma anche quella dell’Ottocento, quando viene ben presto preso in carico dalla pittura che spesso opera un effetto morphing, una dissolvenza incrociata che sovrappone ai tratti dei primitivi quelli degli antichi e degli orientali. Come fanno in modi diversi Gauguin, Ingres e Delacroix. Ma è soprattutto la letteratura a trasformare il primogenito della natura in un simbolo di lealtà, di giustizia, di fedeltà. Come il meraviglioso Venerdì, uscito dalla penna di Daniel Defoe, che ne fa il compagno devoto di Robinson Crusoe. E ancor più l’esotico Queequeg, il ramponiere polinesiano di Moby Dick. Una figura ad altissima definizione, con principi incrollabili e tatuaggi indelebili, che segue fedelissimamente il capitano Achab nella sua caccia suicida alla balena bianca. Fino al tragico esito. Ma lo fa per pura lealtà, perché vede lucidamente tutta la follia del comandante che si ostina a trasformare il cetaceo in un simbolo del male, mentre la povera bestia non fa che seguire la sua natura. Lo stesso mostro creato dal Dottor Frankenstein di Mary Shelley può essere considerato a tutti gli effetti un innocente bestione trasformato in mostro da una società filistea che ne fa un oggetto di esperimento, oltre che di body shaming.
Ma oltre che al di là del mare, il mito del buon selvaggio abita anche al di là del cielo. È il caso dell’E.T., l’alieno dolce ed empatico di Spielberg. O degli Ewok, gli orsetti dagli occhioni luminosi di Star Wars, il cui nome deriva dagli indiani Miwok, antichi abitatori della California. Non a caso la saga di George Lucas ne fa una tribù di buoni selvaggi che prende ordini dalla natura e combatte contro l’imperialismo della tecnologia. Un discorso a parte merita quel wild boy ad honorem di Tarzan, che, ancorché bianco, vola come un trapezista fra natura e cultura. In fondo, il compagno di Jane sarebbe la prova che basta sottrarre l’uomo alla civiltà per restituirlo all’innocenza naturale. È il controcanto hollywoodiano del darwinismo. Proprio come il pensiero degli illuministi era stato il controcanto dell’idea di progresso. In realtà, ora come allora, la mitologia dell’uomo naturale serve più che altro a mettere sotto accusa la civiltà. Ne era arciconvinto l’integrato Voltaire che rimproverava all’apocalittico Rousseau di voler riportare indietro gli umani nella scala evolutiva fino a farli tornare quadrupedi. Di fatto questa figura di cavernicolo di buoni sentimenti è una proiezione esterna di noi stessi, un’immagine del bene di cui ci piace immaginarci capaci se non fossimo vittime della società. In questo senso la favola della natura buona è uno dei più colossali dispositivi di deresponsabilizzazione individuale inventato dall’Occidente. E che oggi si dirama per mille rivoli nelle posizioni più estreme dell’ecologismo come dell’antispecismo. In quell’integralismo nudo e crudo che contrappone la natura alla società come il bene al male. In realtà l’essere umano, come diceva Baudelaire, è sempre lui, che prenda al laccio il suo babbeo sul boulevard o che azzanni la sua preda nella foresta. Perfettamente in sintonia con il pessimista Schopenhauer, secondo cui i selvaggi si divorano tra loro mentre i civilizzati si imbrogliano fra loro e questo si chiama l’andamento del mondo.
Ma allora il selvaggio, buono o cattivo che sia, si rivela semplicemente un effetto diottrico, uno specchio per avvicinare o allontanare la nostra immagine, per far luce nell’oscurità dei nostri labirinti. In fondo le parole bene e male hanno la loro etimologia remota rispettivamente nella nozione di splendore e in quella di tenebra. Il problema, come dice il Vangelo di Giovanni è che «gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce «E dunque non è questione di civiltà, ma di scelta. Insomma il buon selvaggio rappresenta il dilemma dell’ umano. Ecco perché non possiamo farne a meno.