la Repubblica, 25 novembre 2025
Jodie Foster: “La paura di fallire mi ha salvata, ma sono tante le occasioni perse”
Jodie Foster in Vita privata di Rebecca Zlotowski (dall’11 dicembre in sala con Europictures) è una celebre psichiatra la cui tranquillità borghese viene infranta dalla morte di una sua paziente: è convinta che non si tratti di suicidio e, con l’aiuto dell’ex marito Daniel Auteuil, si inoltra in un’indagine poliziesca, psicologica, malinconica, e ironica. Il film è ambientato a Parigi e da lì l’attrice, 63 anni, cinquanta film e due Oscar, si racconta.
Che cosa ha scoperto di sé interpretando un personaggio così complesso?
«Non so. Credo di aver scoperto quanto posso essere nervosa facendo un film in una lingua diversa. E penso che aggiunga qualcosa al personaggio, davvero. Perché lei, anche se è una donna forte, si sente frustrata, ansiosa, preoccupata. E questo era vero anche per me, ero preoccupata di non trovare la parola giusta o dimenticare qualcosa. E questo ha aggiunto al personaggio una fragilità, una vulnerabilità».
In un’intervista ha detto di aver temuto il fallimento per anni. Con la sua carriera sembra difficile da immaginare.
«Forse essere spaventati dal fallimento è motivante. La gente vede i film che ho fatto, ma non vede tutti quelli che non sono riuscita a fare, o le opportunità che ho avuto e non sono riuscita a cogliere. Come persona guardi sempre ciò che non sei riuscita a fare piuttosto che quello che hai effettivamente fatto».
Qual è stata la principale sfida di questo film?
«Le mie donne sono tutte diverse, ma qui la sfida più grande è il tono. Il film non ha un genere solo: è un po’ mistero, un po’ thriller, un po’ commedia, un po’ romantico. Non sceglie tra i generi e questo è difficile nei film americani. Perché gli studios ti fanno pressione per poterlo vendere. Devono sapere che è un thriller o un mistery. E qui era difficile: è una commedia? Un dramma? È ridicolo? Sottile. Era questa la sfida del film».
Che rapporto ha con il cinema europeo?
«Mia madre mi mise in una scuola francese quando avevo nove anni perché non aveva mai viaggiato da nessuna parte. Voleva era una sorta di identità europea per me e per lei stessa. Alla fine ha viaggiato e ha detto “ok, adesso sarai un’attrice francese, lasceremo questo Paese”. Per lei era una specie di fantasia, lasciare il suo Paese e diventare una donna parigina o qualcosa del genere. Ma per me è stato fantastico perché mi ha introdotto a tutte queste culture europee. Mi portava a vedere film italiani, tedeschi, francesi, e a qualunque festival riuscisse a trovare, così da farmi avere un’esperienza del cinema europeo».
E quali ricordi conserva del set di Il casotto?
«Ah, Il casotto, ero così giovane… girare quel film a Roma fu divertentissimo e folle. Nessuno parlava la stessa lingua. Non avevamo il suono in presa diretta, quindi era solo una guida: ognuno recitava nella propria lingua, italiano, francese, tedesco… era folle. E poi il regista urlava indicazioni nel mezzo delle scene, visto che non registravamo i suoni. Era un gruppo di amici che aveva lavorato con Pasolini e si erano messi insieme per fare quel film: dei fratelli Citti uno era regista, l’altro attore, Gigi Proietti, Mariangela Melato, Michele Placido Paolo Stoppa, Flora Mastroianni… c’era persino Catherine Deneuve».
Che memoria e anche pronuncia perfetta.
«Beh è stato un grande momento della mia vita. E amo l’Italia. Posso parlare italiano se devo, se sono costretta, ma ho sempre lo dovrei imparare meglio per poter doppiare i miei film o poterne fare uno vero in italiano. Ma non l’ho mai padroneggiato davvero».
Che cosa direbbe oggi alla giovane Jodie che recitava in quel film?
«Ero così imbarazzata perché dovevo indossare il costume da bagno per tutto il tempo del film. Nessuna ragazza di tredici anni vuole stare in costume per un film intero. Credo che il mio lato femminista le direbbe “non preoccuparti, andrà tutto bene. Non significa niente. Sei una brava attrice, non devi preoccuparti di come appari”».
Il 25 novembre è la giornata contro la violenza sulle donne. Lei nel 1988 ha interpretato un film fondamentale, Sotto accusa. Che significato ha oggi?
«È stato un film che ha cambiato molte vite, credo. Ed è stato un grande film per me, la mia seconda nomination, e il mio primo Oscar vinto. Fu un film così difficile, non solo per me, ma per l’intera troupe e per gli attori che interpretavano gli stupratori: è stato difficile anche per loro. Sono orgogliosa del film. Ho fatto anche altri progetti che parlano di violenza sulle donne, violenza sessuale. La serie True Detective si concentra sulla violenza contro le donne indigene, che è un vero problema e una terribile tragedia non solo nel nostro Paese. Quindi sì, è sempre una buona cosa avere una giornata di consapevolezza».
Che cosa sta preparando ora?
«Non sto scrivendo, ma altri scrittori stanno lavorando a progetti per me. Spero di ricevere le sceneggiature e che siano buone, così potrò tornare a dirigere. Spero di non recitare per un po’ e tornare alla regia».
Che cosa significa per lei dirigere?
«È il sogno di tutta la vita. È ciò che pensavo di voler fare più di ogni altra cosa. Dirigere significa usare tutto di te: non solo la parte intellettuale, ma quella emotiva, quella fisica. Essere colei che ha la visione del film è la cosa più emozionante che ci sia».
Come regista è interessata a storie diverse rispetto a quelle che interpreta come attrice?
«Sì. Da regista amo i film corali, con tanti personaggi e storie che si intrecciano. Da attrice, invece, sono più attratta dai ritratti di un singolo personaggio. Come regista faccio metà commedie e metà drammi, mi affascinano progetti bizzarri, fuori dagli schemi, da attrice amo i drammi».
Quali film le citano più spesso le persone che incontra?
«Le generazioni cambiano, ma i film che la gente cita di più sono Taxi Driver e Il silenzio degli innocenti. Sono i due film più grandi e credo che abbiano fatto la storia. Sono stati i primi nel loro genere e parte di un’epoca cinematografica importante. Il silenzio degli innocenti è stato il primo horror davvero intelligente e psicologico, ben scritto. Con un personaggio diabolico che nessuno dimenticherà mai come Hannibal Lecter. Taxi Driver invece parla dell’antieroe, dei film degli anni Settanta che venivano direttamente dal periodo della guerra in Vietnam. Era la transizione dopo il Vietnam, la nascita dell’antieroe: racconta chi eravamo, questa nuova identità americana. Sono film che raccontano un momento della storia».
Quest’anno molti artisti, anche non americani, parlano di una nuova speranza che nasce a New York, anche grazie al sindaco Mamdani. Condivide questa sensazione?
«Sì. Mamdani è il figlio di Mira Nair, quindi siamo molto orgogliosi di lui. Sua madre non solo fa film meravigliosi, ma ha cresciuto figli brillanti. Spero che questa speranza continui, perché è un periodo davvero difficile non solo in America ma nel mondo. È un momento di trasformazione, di violenza e crudeltà. Sarà interessante vedere cosa ne verrà fuori, dove saremo. Ho visto il film di Sorrentino, La grazia: per me è davvero il miglior film dell’anno. È un film straordinario. E ciò che lo rende così sovversivo è la sua bontà, il suo grande cuore. Non parla di molestie, violenza, mutilazioni, genocidi: è un film che vive nella possibilità dell’umano. Spero che vada lontano. È il suo miglior film, senza dubbio».
Che rapporto ha con i social media?
«Non ne ho. Non ho nessun social, e non ne ho alcun desiderio. Sono felice di non averne. Sono in un’età diversa della mia vita e la mia carriera è iniziata in un’epoca diversa, non ho i riferimenti e le pressioni dei giovani. Mi dispiace per i giovani. È difficile capire chi sei senza questa proiezione dalla società su chi dovresti essere o chi stai fingendo di essere. C’era un livello di educazione etica e morale che la mia generazione ha avuto e che questa generazione non ha avuto la possibilità di avere. Non sappiamo più cosa sia un buon comportamento o cosa non lo sia. Perché siamo colpiti costantemente dal peggio del comportamento umano. Ed è difficile per questa generazione capire che esiste un codice etico e morale».
I giovani stanno tornando a protestare per la pace. Questo alimenta la sua speranza?
«Sì. Ho due figli, uno di 27 e uno di 24 anni. Sono impegnati, hanno opinioni politiche forti, e nessuno dei due è interessato ai social. E penso che si sentano un po’ maledetti dalla generazione del selfie, cresciuta guardandosi in quel modo meta. Da loro vedo molta speranza».