la Repubblica, 25 novembre 2025
Boualem Sansal: “Le mie prigioni tra la paura e Victor Hugo”
Quando arriva ha i capelli corti, un ampio sorriso e il passo svelto. Abbracci, emozione… Negli uffici vuoti della casa editrice Gallimard, l’incontro ha qualcosa di irreale. Boualem Sansal è lì, riposato, rinfrancato, dice, dalle cure ricevute in Germania, presso l’ambasciata francese, e ora da quelle di Antoine Gallimard, Karina Hocine e tutta la casa editrice, il principato in cui ha trovato rifugio. La voce è sempre dolce, il viso smagrito. Lo sguardo combina gravità, intelligenza e malizia. Nelle prigioni algerine lo chiamavano «la leggenda» ma anche in Francia lo scrittore, che coniuga la vita e la sua missione, si eleva al di sopra dei suoi pari. È un autore, un profeta, un testimone. Non è amareggiato ma conserva una grande lucidità sulle lotte per la libertà che ancora si devono combattere da una parte e dall’altra del Mediterraneo. Per Le Figaro ha ripercorso la sua vita di prigioniero letterario e politico. Un’esperienza più impressionante di qualunque discorso, più eloquente di qualunque manifesto. Me l’aspettavo, certo, lo temevo, ma non ci credevo. Mi dicevo: «Non possono arrivare a tanto. Però sono molto forti, sono intelligenti, sono degli strateghi». Poi, quel giorno, una volta sbarcato dall’aereo su cui ero salito a Parigi, mi incammino per andare a prendere un taxi per tornare a casa e il doganiere mi trattiene. Mi chiede il passaporto. Quando guarda lo schermo capisco che qualcosa non va. Mi chiede il nome di mio padre, quello di mia madre, mi dice di accomodarmi.
Aspetto una mezz’ora, poi arriva un agente di corsa. Prende il mio passaporto e il mio telefono e mi dice di seguirlo. Mi guida nelle viscere dell’aeroporto. È incredibile quello che c’è sotto un aeroporto, una città intera. Attraversiamo un ambiente in cui ci sono una trentina di soldati equipaggiati come per una guerra spaziale. Devono far parte delle misure di sicurezza consuete. Poi mi porta in un ufficio e mi chiude dentro. Erano le cinque e mezza del pomeriggio, fino all’una del mattino non è successo niente.
Neanche un interrogatorio?
"Niente. Verso l’una arrivano dei tizi inquietanti, vestiti per metà da islamisti, per metà da teppistelli di quartiere. Vengono verso di me e tirano fuori le manette. Sul momento le manette mi hanno lasciato indifferente ma più tardi, ripensandoci, mi sono sentito profondamente umiliato. Quando siamo usciti dall’aeroporto dovevano essere le due. In un parcheggio buio mi hanno fatto salire su un’auto, c’era un autista, mi hanno incappucciato e l’auto è partita”.
Incappucciato come un terrorista?
“Ero seduto fra due agenti, quello che guidava e un altro accanto a me. Penso che fosse il capo, perché aveva una certa autorità sugli altri. Poi siamo partiti. A un certo punto gli ho chiesto: «Quando mi sgozzate? Nel bosco o lungo la strada?» Mi è uscita così. Loro si sono messi a ridere. «No, non sgozziamo nessuno» hanno risposto. «Molto bene, che cosa volete farmi?» Silenzio. E intanto la strada continuava, continuava. Non sapevo più dove fossimo. Il viaggio è durato un’ora. Poi, a un certo punto, ho avuto l’impressione che stessimo percorrendo delle stradine, attraversando dei quartieri. L’auto si ferma e sento un cancello che si apre, molto rumoroso. L’auto avanza e sento il rumore del cancello che si chiude. Mi hanno fatto scendere e mi hanno tolto il cappuccio. Sembrava il cortile di una prigione. Mi hanno fatto entrare in un ufficio, mi hanno spogliato, mi hanno preso la borsa, il telefono. Poi mi hanno chiuso in una stanza vuota. Niente finestre, niente materasso, niente. E mi ci hanno lasciato per sei giorni”.
Le hanno permesso di rivestirsi?
"Sì. Hanno perquisito tutto e poi sì, mi sono rivestito. Dovevano essere le tre o le quattro del mattino. Ho arrotolato il cappotto e mi sono sdraiato. Ho cercato di dormire ma era impossibile. Al mattino, verso le sei, è entrato un ragazzo e mi ha dato un bicchiere di latte e un pezzo di pane. Poi verso le nove o le dieci sono venuti a prendermi e mi hanno portato in un ufficietto, davanti a tre agenti”.
Erano dei militari?
"Non lo so. Dei funzionari”.
Di polizia?
"Senza dubbio. Inizia l’interrogatorio. Mi mostrano una foto di Sarkozy. «È un suo amico? Vi conoscete?» Rispondo che la foto è stata scattata durante una serata, c’eravamo io, sua moglie e due o tre amici. «Di cosa avete parlato?» «Del più e del meno» È andata avanti così per cinque giorni. Ero completamente isolato. Mia moglie mi stava cercando dappertutto. Solo il sesto giorno sono stato portato davanti al procuratore regionale”.
Sei giorni da fantasma…
"Durante quei sei giorni non avevo nessuno status legale. Ero stato sequestrato, rapito. Da chi? Non lo so. L’ho chiesto mille volte, hanno sempre rifiutato di identificarsi. Gli dicevo: «Se non mi dite chi siete non rispondo alle vostre domande»”.
E non rispondeva?
"No, non rispondevo. È andata avanti per sei giorni, con otto o dieci ore di interrogatorio al giorno. Massacrante”.
Aveva paura?
"Sì, devo ammettere in tutta franchezza che ho avuto paura”.
Era solo in cella?
"Sì, solo. Il primo giorno qualcuno mi ha passato due bottiglie d’acqua. Una piena, sigillata, quindi era acqua minerale. L’altra vuota. Ho chiesto: «È questa la tortura? Riempio la bottiglia vuota e poi bevo?» Mi ha risposto: «Questa è per fare pipì». «E il resto dove si fa?» ho chiesto «Sui muri?» Poi, un po’ più tardi quel mattino, sono venuti a prendermi e mi hanno portato in bagno… Ma non ho osato entrare, era davvero spaventoso. Dovevano essere vent’anni che nessuno lo puliva. L’ultimo giorno sono venuti a dirmi: «Deve lavarsi e sistemarsi». Poi mi hanno fatto salire su un furgone. Ho rivisto la città, attraverso le sbarre vedevo le strade, il sole, la gente libera. Mi hanno portato da un procuratore che mi ha trattato come un cane. Il suo ufficio era gigantesco. Mi ha chiesto di rimanere a distanza. Gli ho detto che non sentivo niente, porto degli apparecchi acustici e me li avevano tolti. Mi ha fatto avanzare prima di cinque metri, poi di altri cinque, ma non sentivo niente. «Tanto vale che mi sieda in braccio a lei» gli ho detto «sono quasi sordo». Poi ha impartito un ordine a un agente che mi ha rimesso le manette. Abbiamo preso l’ascensore e raggiunto il quarto piano, per andare dal giudice istruttore. Un tipo simpatico, sulla quarantina, dall’aria intelligente. E là, subito, ho chiesto se potevo telefonare a mia moglie e ottenere la libertà condizionata. Mi ha risposto che con le accuse a mio carico era impensabile. Poi è iniziato l’interrogatorio e in seguito mi hanno portato a Koléa. Ho scoperto quella prigione immensa costruita dai cinesi. È recente, ha soltanto una ventina d’anni. E mi hanno messo nel settore di massima sicurezza”.
Capiva la ragione della sua detenzione?
"Terrorismo, anti islamismo, complicità col nemico e quant’altro. Ma in realtà ho capito presto che le vere ragioni erano il riconoscimento da parte della Francia del fatto che il Sahara occidentale appartiene al Marocco – questo argomento, assieme alla causa palestinese, è un’ossessione per il regime di Algeri – e la mia amicizia con Xavier Driencourt, l’ex ambasciatore francese che due anni fa ha pubblicato L’Énigme algérienne”.
Da quel momento in poi l’hanno trattata bene?
"I primi giorni mi hanno trattato come tutti gli altri detenuti, ma a un certo punto dev’esserci stato un intervento di Emmanuel Macron, che dal primo giorno chiedeva la mia liberazione «immediata e incondizionata». Ha parlato pubblicamente del disonore dell’Algeria. Hanno capito che dovevano fare qualcosa. Devono essere arrivate delle istruzioni, da parte del presidente Tebboune, probabilmente, o di qualcuno del suo entourage. Perché a partire da quel momento, in ospedale e in prigione, ho avuto un trattamento preferenziale”.
A partire da quando, quindi?
"Dal dicembre scorso, in pratica dopo un mese”.
Era da solo in cella?
"No, in ogni cella c’erano due persone”.
Per forza due?
“Non lasciano nessuno solo in cella. Nemmeno se è il presidente della Repubblica. In quella prigione c’erano quattro ex premier, una trentina di ministri, sessanta capi d’azienda, ma sempre a due a due…”.
Con lei chi c’era?
"Dato che ero un detenuto speciale e che non parlo arabo hanno scelto una persona francofona. Un infermiere che si è preso molta cura di me. Mi accompagnava in bagno e mi aiutava perché io non avevo mai usato i bagni alla turca”.
La conosceva?
"Assolutamente no”.
Nemmeno come scrittore?
"Sì, chiaramente sapeva. Molto più tardi, quando ha cambiato reparto, ho scoperto che era un ex poliziotto che aveva già scontato cinque anni di prigione per estorsione. Si è preso molta cura di me. Io non sapevo fare niente. Non avevo biancheria. Avevo solo un paio di calze spaiate. Abbiamo chiesto agli altri detenuti, ognuno mi ha regalato qualcosa, una canottiera, una camicia. Era inverno, faceva freddo, e la finestra aveva le sbarre ma non i vetri, quindi la temperatura dentro era uguale a quella fuori”.
Anche gli altri detenuti la conoscevano? Sapevano che lei era…
"L’hanno saputo subito, mi hanno detto che in Algeria mi avevano dato un soprannome”.
Quale?
"«La leggenda»”.
«La leggenda»? Mica poco…
“Sì, niente male. Voleva dire: «È un oppositore del regime sostenuto dall’Europa, dalla Francia, dagli Stati Uniti, da Marte». Era quello che sentivo dire quando ero rinchiuso nella scatola…”.
La scatola?
"La scatola è l’unità carceraria. Un corridoio con quattro celle per ogni lato. Due detenuti per cella, sedici persone in totale. A volte diciotto, perché se arriva un detenuto temporaneo a volte in una cella ne mettono tre. E la loro condizione è migliorata perché io ero soggetto a un regime speciale e tutti ne approfittavano. Io ho avuto presto diritto a fare la doccia tutti i giorni, mentre gli altri detenuti avevano diritto a una doccia di cinque minuti ogni dieci giorni. E il guardiano era super simpatico. Quindi nel mio spazio c’era un ordine”.
Un ordine?
"Sì, era necessario che il prigioniero fosse in buona salute”.
Aveva da scrivere?
"Sì, bastava chiedere e mi davano carta e matita. Dicevo: «Datemi quattro fogli, per favore. Voglio scrivere al presidente Tebboune». Me li davano e io scrivevo al presidente, ben sapendo che ogni lettera sarebbe stata riletta”.
Ha scritto al presidente della Repubblica d’Algeria?
"Almeno dieci volte, e con toni molto diversi. Le prime lettere avevano un tono molto accusatorio. Ero convinto che sarei restato in prigione per anni, quindi tanto valeva farmi terra bruciata intorno. Poi ho deciso di essere più strategico. Gli ho spiegato che l’unica soluzione era liberarmi, riconciliare l’Algeria con la Francia. Gli dicevo che il suo Paese era completamente isolato e che la sua sola possibilità era la Francia, e lo credo fermamente. Gli descrivevo in dettaglio il trattamento inumano dei detenuti. Scrivevo anche al ministro degli Affari esteri, con lui ero molto più critico, se non addirittura feroce”.
E riusciva a vedere sua moglie?
"Per proteggerla dicevo a tutti «Mia moglie è a Parigi, sta venendo a trovarmi.» Forse era un errore, perché ciò che i responsabili della prigione temono è la circolazione delle informazioni. È il loro incubo. E mia moglie è diventata il loro incubo. Come tutti i detenuti, avevo diritto a mezz’ora con lei ogni due settimane. Un colloquio registrato, via telefono, separati da un vetro. I gesti, in casi del genere, contano quanto le parole”.
Scriveva anche per sé? Un diario, un romanzo?
"All’inizio volevo tenere un diario, certo, un po’ come ha fatto Sarkozy, ma temevo di sprofondare nell’autocommiserazione per via del freddo e della noia, quindi non ci sono riuscito. Ho stretto dei rapporti, penso a Walid Benflis, figlio dell’ex ministro della giustizia, condannato a vent’anni di prigione per alto tradimento”.
Aveva anche da leggere?
"C’è una biblioteca. In questa prigione di massima sicurezza ci sono corridoi interminabili e uno di quei corridoi porta a una biblioteca”.
Che cosa poteva leggere, romanzi o giornali?
"Leggevo libri, compilavo una richiesta scritta con il mio numero di matricola: 46611. Sono venuti a prendermi e mi hanno portato in una biblioteca, molto grande e molto bella. Ma l’arabizzazione e il rancore verso la Francia avevano lasciato il segno. L’ottanta per cento dei testi erano corani o libri sull’Islam. E poi, ma molto malconci, i superstiti del periodo francese”.
Per esempio?
"Ho trovato qualche libro relativamente in buono stato. Notre-Dame de Paris, di Victor Hugo. Un libro che adoro: l’ho letto due volte. Mentre il mondo assisteva alla rinascita della cattedrale di Parigi, io leggevo il romanzo in prigione. Leggevo Maupassant, che è andato in Algeria ed è passato dal villaggio in cui sono nato e che ho lasciato quando avevo soltanto sei mesi. Su quel posto ha scritto pagine sublimi. E poi ho letto uno dei miei autori preferiti: Montherlant. Che strano, in prigione ho avuto un interesse particolare per autori che hanno posto fine alla propria vita. Maupassant è morto folle, Montherlant si è suicidato. Aveva tendenze suicide, quindi la sua famiglia lo spostava di paese in paese sperando di salvarlo dalla nevrastenia. Senza risultato però: lui tutte le mattine diceva «oggi mi suicido». Un giorno qualcuno gli ha detto: «Sai, adesso l’Algeria è un dipartimento francese, ed è un posto fantastico». Montherlant ha preso un biglietto per restarci una settimana e ci è rimasto cinque anni. Una volta sbarcato al porto di Algeri ha avuto un colpo di fulmine. In prigione ho scoperto un suo librino di sole quaranta pagine: Il y a encore des paradis”.
Sapeva che cosa si diceva di lei in Francia? Sapeva della mobilitazione dei politici, degli scrittori, dell’opinione pubblica, del movimento di sostegno, di Kamel Daoud?
"Tramite mia moglie, i miei avvocati e le mogli e gli avvocati degli altri detenuti. La mobilitazione ha avuto dei riverberi nella mia prigione e poi anche negli altri penitenziari. Le persone mi dicevano: «Ma non è possibile. Tutta la Francia è con te, tutta l’Europa, sono pronti a fare la guerra per te! Dobbiamo approfittare di questa pressione». In Francia facevo molto affidamento sul mio amico Jean-Paul Scarpitta perché i miei sostenitori prendessero le posizioni giuste”.
Poteva guardare la televisione?
"Sì, ma solo la televisione algerina, per la quale la Francia è sempre colpevole, che sottolinea ogni minima debolezza del nostro Paese e che osanna i membri di La France insoumise, Jean-Luc Mélenchon, Mathilde Panot e Rima Hassan, come ottimi francesi”.
Quando era in prigione, pensava ai colleghi scrittori che hanno conosciuto la stessa sorte?
"Sì, certo. Pensavo a Navalny, agli iraniani…”.
Quando ha capito che sarebbe stato liberato?
"L’ho pensato diverse volte. Ogni tanto persino il direttore della prigione mi faceva dei cenni d’intesa. Poi il 10 novembre ho trascorso la notte in ospedale. L’11 hanno raccolto tutte le mie cose e ho capito che mi avrebbero liberato. Vedevo gente che andava e veniva molto agitata. Ero nell’ufficio del direttore dell’ospedale. C’era un vecchio signore molto elegante… che ha cominciato a farmi la predica. In buona sostanza mi ha detto che, se fossi stato liberato, avrei dovuto trarne delle lezioni e smettere di denigrare il nostro paese. L’ho ascoltato. Poi, come ad altri, gli ho detto che se voleva poteva trattenermi ma che se avessi riavuto la libertà, sarebbe stata anche libertà di pensiero e di parola. Oggi pensa a Christophe Gleizes… Mi auguro con tutto il cuore che venga liberato. Bisogna che la relazione fra Francia e Algeria si normalizzi, che dimentichi i tormenti della storia e della memoria e torni al diritto comune. La Francia per l’Algeria è un’opportunità, Algeri deve capirlo. La storia imprigiona la politica, quando tornerà fra le pareti degli studi degli storici, la Francia e l’Algeria potranno riallacciare un legame. Sa, i sentimenti degli Algerini sono ambivalenti, nutrono allo stesso tempo rancore verso la Francia e nostalgia per un’intesa che si può e si deve ritrovare”.
Intende vivere a Parigi?
"Nei paraggi, più o meno lontano. Ho bisogno di vedere alberi, boschi e fiumi”.
Il suo prossimo libro parlerà di prigione?
"Non necessariamente, ma questo episodio e la relazione franco-algerina evidentemente mi perseguitano. La prigione è una lente deformante. Si vede il mondo attraverso quella lente, non con i propri occhi. Il mondo visto dal punto di vista del prigioniero è un tema da romanzo”.
Desidera tornare in Algeria?
"Non potrei più viverci, gli islamisti hanno troppo potere. Ma bisogna che ci torni almeno una volta, per il valore simbolico del ritorno e per recuperare il mio telefono e il mio computer. Contengono vent’anni di lavoro, una lunga parte della mia vita”.