Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  novembre 25 Martedì calendario

«Sono invincibile? Errore che non farò»

I brividi della settimana di Coppa Davis sono entrati a fatica nella valigia per le vacanze: direzione Maldive. Tanti, intensissimi. «Non ci ho capito niente di quello che è successo a Bologna» dice serio Flavio Cobolli il giorno dopo l’impresa, diretto all’aeroporto, con quella naiveté che ne fa il talento più verace del tennis italiano. Proviamo a ricapitolare.
Come è andata la notte del trionfo con i compagni?
«Mah, Bologna non ci ha dato grandi soddisfazioni: i locali aperti domenica notte erano pochini. Siamo finiti in un posto solo noi della squadra, tra balletti e discorsi surreali. Ci siamo divertiti ma potevamo fare di peggio...».
Ha deciso dove metterà la Coppa Davis?
«Per il momento me l’ha rubata mio nonno: credo che stia facendo il figo con gli amici a Roma. Ma appena torno dalle Maldive, me la riprendo».
Come mai tutti i tennisti, Sinner incluso, vanno alle Maldive? Avete convenzioni?
«Per fortuna nessuno del gruppo azzurro sarà nel mio villaggio! Parto con la mia ragazza e una coppia di amici. No, Bove non c’è: domenica non era a Bologna ma l’ho sentito. Edo è sempre con me».
Chi altro si è fatto vivo?
«La mia Roma: Daniele De Rossi mi ha scritto un messaggio bellissimo, mi hanno chiamato Bruno Conti e Antonello Venditti. Ho il telefono intasato di messaggi, però ho letto solo quelli della chat delle persone più importanti della mia vita. Con calma, risponderò a tutti».
L’Austria, il Belgio, la Spagna. I sette match point annullati a Bergs in semifinale, i sette match point per domare Munar in finale. Cosa rimane di questa Davis, Flavio?
«Rimane tutto. Non avevo mai provato un’emozione così grande. Non avevo mai sentito gridare il mio nome da uno stadio intero. Ho in testa ricordi indelebili. Ma, soprattutto, mi sono divertito».
Anche sotto un set e un break con Munar in finale?
«Sì, perché in quella circostanza stavo imparando».
Cosa, in particolare?
«Ha ragione Filippo Volandri: in Davis non sempre fai la differenza con i big. Alcaraz l’anno scorso a Malaga non ha vinto, Zverev a Bologna è uscito in semifinale. Ho capito che ci devono essere un attaccamento alla maglia e una voglia di vincere addirittura superiori alle tue qualità».
C’era anche l’orgoglio di dimostrare che l’Italia degli amici, Berrettini e Cobolli, non è Sinner-dipendente?
«Jannik è imprescindibile, in ogni cosa che fa. Non so cosa ci sia scattato dentro a Bologna. Una convinzione che è maturata strada facendo. In allenamento non giocavo per niente bene: non ho vinto un set. Eppure, giorno dopo giorno, cresceva una sensazione forte, come se fossimo diventati invincibili. Ognuno ha avuto il suo ruolo: Sonego non si è perso un quindici, nemmeno per andare in bagno, Vavassori e Bolelli facevano un tifo sfegatato, io sostenevo Matteo, Matteo dopo aver giocato correva da me. È stato un lavoro pazzesco, nel quale ciascuno ha fatto la sua parte fondamentale».
E quando ha chiesto il sale fino da far sciogliere sotto la lingua?
«Avevo giocato tre ore con Bergs, anche con Munar il match si stava allungando: ho intuito che avrei dovuto scavarmi dentro. Temendo i crampi, mi sono mosso a scopo preventivo. Ho chiesto il sale a Filippo, la panchina si è mobilitata: qualcuno è corso a prenderlo nelle cucine del palazzetto».
Suo padre Stefano, che la allena, ha detto che non credeva che lei ce la facesse con Munar, però adesso può dirlo: mio figlio è un campione.
«Sono parole che da mio padre è difficile ascoltare: in famiglia esprimiamo le emozioni a modo nostro. Non a caso, a me non l’ha detto. Dentro i suoi occhi, alla fine, vedevo felicità e commozione, come durante i quarti a Wimbledon con Djokovic. Mi porterò tutto dentro per sempre».
Crede che questa Davis le cambierà la vita e la carriera? Sarà possibile prolungare questa meravigliosa inerzia l’anno prossimo, dall’Australia, nel circuito Atp?
«La mia carriera finora è avanzata a piccoli passi. Sto maturando per gradi, senza fretta e senza strappi, come piace a me. Ogni difficoltà che affronto mi serve per crescere e evolvermi. Anche alle grandi competizioni a squadre del tennis – la Davis, la Laver Cup, la Hopman Cup, la United Cup – ho partecipato prima da riserva e poi da giocatore. Voglio dire che ho vissuto tutto in modo autentico, direi puro, quasi ingenuo, senza perdermi uno step del percorso. Prima ho fatto la gavetta, poi sono stato protagonista. La strada va costruita. E della mia strada la Davis conquistata a Bologna sarà sempre uno snodo fondamentale».
L’importanza del gruppo. In svantaggio con Munar, ha raccontato di aver guardato Berrettini e i compagni in panchina e di aver pensato: non posso deluderli.
«Ho temuto la figuraccia. Letteralmente. Ma con la maglia azzurra addosso le figuracce non sono ammesse. Non succederà mai. A Bologna sono stato costretto a trasformare gli ostacoli in risorsa. Per due volte, ho capovolto situazioni molto negative. In questo sì, ho stupito anche me stesso».
Da numero 22 del ranking, nel 2026 ragionerà per obiettivi di classifica, di tornei o di match giocati?
«Questo è un aspetto che decideremo dopo le vacanze, nell’off season. Mi fido molto di chi mi segue, a cominciare da papà, quindi mi affido. Io la mia idea di dove vorrei arrivare, ce l’ho chiara: nei top 10. Non so quando, non so bene come, ma a questo punto l’asticella va alzata. Per stare dietro a Jannik e ai top player sono chiamato a colmare le mie debolezze. Non significa che sento l’obbligo di vincere sempre, tutt’altro. Solo giocando, perdendo e vincendo si può crescere».
La terza Davis consecutiva appartiene all’era moderna ma la storia è iniziata con la vittoria degli antenati, nel ‘76. Cosa sa di quella storia?
«Ho finito la docuserie sul successo in Cile, il primo del tennis italiano. Matteo mi prende in giro, dice che in realtà ho visto solo gli highlights....».
Berrettini dice anche che non siete eroi, gli eroi sono altri: chi, Flavio?
«Ha ragione. Gli eroi sono quelli che contribuiscono tutti i giorni al bene del mondo. Io gioco solo a tennis e se faccio bene il mio mestiere, mi sento a posto».