Corriere della Sera, 25 novembre 2025
Intervista a Heinz Beck
«Also: qui manca un po’ di spinta. Qui ci va meno sale. Questa leghiamola di più». Seduto nel salotto de «La Pergola», il ristorante che guida dal 1994 al nono piano dell’hotel Cavalieri Waldorf Astoria di Roma, Heinz Beck sta assaggiando tutte le preparazioni che la sera usciranno dal pass. Arrivato da Monaco 31 anni fa senza parlare una parola di italiano né conoscere un singolo piatto della cucina tricolore, Beck, classe 1963, è il primo e unico chef tedesco ad aver preso nel nostro Paese le tre stelle Michelin. La sua ricetta? Sedici ore di lavoro al giorno e tantissimo rigore.
Beck, lei controlla tutto?
«Io controllo il cibo, poi c’è chi controlla le altre funzioni del ristorante. È un lavoro di squadra: se cominci a non guardare più una cosa, ad assentarti da un’altra, la situazione sfugge in un attimo».
Ha appena ricevuto dalla Michelin il premio di chef Mentor. Che effetto le fa?
«Sono felicissimo: è un traguardo che ti dà lo stimolo per andare avanti, perché investire nei giovani non è tempo perso. I giovani sono fondamentali, senza di loro non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo farli crescere, sognare, volare».
Come si fa?
«Aiutandoli a rendersi autonomi, a camminare sui propri passi».
C’è ancora voglia di fare questo lavoro?
«Magari un po’ meno, ma chi ne ha, ne ha davvero».
A fine novembre festeggia vent’anni da tristellato.
«Abbiamo preso le tre stelle in diretta tv: l’inviato di Porta a Porta era con noi in cucina, mentre in studio da Vespa c’era un portavoce della Michelin. Diede l’anticipazione mentre stavamo lavorando. Ci fu un momento di silenzio, tanto che staccarono il collegamento. Un attimo dopo, il boato: festeggiammo tutta la notte con i clienti».
Vespa l’ha più visto?
«Spesso, una volta mi ha anche invitato a cucinare nella sua tenuta in Puglia. È gentilissimo e non se ne approfitta mai: paga sempre il conto».
Chi, invece, non paga?
«Pagano tutti: qui gli inviti sono pochi. Al massimo, ogni tanto, offriamo un aperitivo».
Dei 15 tristellati italiani siete il quarto più longevo dopo «Dal Pescatore» (1996), «Alajmo» (2003) ed «Enoteca Pinchiorri» (2004). Come si mantiene questo risultato?
«Ci prendiamo dei rischi, cambiamo spesso: facciamo anche 60 piatti nuovi all’anno. Da quando abbiamo aperto, l’1 agosto 1994, si sono susseguiti cinque diversi concept di cucina con dietro tanta ricerca. Quello di adesso lo definirei leggero, salubre, dai profumi mediterranei».
Funziona?
«Abbiamo tre-quattro mesi di lista d’attesa. Anche se arriva il cliente vip si rispetta l’ordine di prenotazione, non facciamo favoritismi».
Lei è proprio tedesco...
«In realtà mi sento più italiano che tedesco: non si può scegliere dove nascere, ma si può scegliere dove vivere. Dovevo fermarmi a Roma due anni, ne sono passati 31».
La famiglia Terruzzi, proprietaria del Cavalieri, la chiamò per riaprire «La Pergola» dopo una ristrutturazione di nove mesi.
«Fu Heinz Winkler, lo chef tristellato del “Tantris” di Monaco di Baviera, dove avevo lavorato, a fare il mio nome. Il colloquio me lo fece il direttore d’albergo dell’epoca, Hans Fritz. Io non ero mai stato in Italia prima: mi sono subito innamorato di Roma».
Di cucina italiana non sapeva nulla.
«E nemmeno di italiano: mi facevo capire un po’ in inglese, un po’ a gesti. Per studiare i piatti andavo a mangiare nelle trattorie a conduzione familiare. Mi inventai subito un tortino di fave e pecorino, una coda alla vaccinara con il cacao, un semifreddo al Parmigiano. Andò bene: la prima stella arrivò nel 1996, la seconda nel 2001».
Ha avuto momenti difficili?
«Sicuramente sì, ma me li dimentico. Sono uno che guarda sempre avanti. Ricordo questo: all’inizio avevamo pochi clienti. L’obiettivo della proprietà era fare utili entro tre anni, abbiamo sforato di poco: al terzo anno avevamo speso due milioni di lire in più di quanto avessimo guadagnato. Dal quarto in poi siamo sempre cresciuti».
Lei è anche sommelier. Oggi Marco Reitano guida la vostra (monumentale) cantina.
«Bravissimo: era un ragazzo, siamo cresciuti insieme».
Ricordi da giovane chef?
«Si lavorava tantissimo, però si imparava altrettanto. Oggi, giustamente, quegli orari non si chiedono più ai ragazzi, ma l’altra faccia della medaglia è che mi arrivano cuochi di 22 anni incapaci di fare un arrosto. Non riescono a cuocere un cosciotto di agnello senza sonda. Allora mi prendo del tempo e lo insegno a tutti. Uno chef deve avere questo bagaglio: può capitare di preparare qualcosa che non sia il piattino decorato».
Ci sono troppi «piattini decorati» nei ristoranti?
«Non amo criticare: penso che la gastronomia italiana sia di qualità. Ma penso anche che nelle cucine attuali ci sia poco spazio per i fondamentali. Chi viene da me prima impara le cotture e poi a usare la strumentazione avanzata, dal liofilizzatore alle vasche a ultrasuoni».
Perché è diventato cuoco?
«Perché mio padre non mi ha lasciato fare il pittore».
Che infanzia ha avuto?
«Severa, ma sana. I genitori facevano i genitori, io e mio fratello gemello, Hermann, i figli. Anche lui si è iscritto all’alberghiero, ma ha studiato sala, e oggi lavora come direttore d’hotel in Inghilterra. Papà era gioielliere, mamma lavorava con lui e poi cucinava: tutti i giorni mangiavamo carne e verdure di stagione comprate al mercato. E a Natale l’oca da tre chili al forno, che tutt’ora preparo a mia moglie, anche se siamo solo in due».
Sua moglie, Teresa Maltese, è anche sua socia.
«L’ho conosciuta qui in hotel. Si occupava di Guests relations dopo aver studiato ospitalità in Svizzera. Sarebbe dovuta andare a Parigi, ma non c’era posto, perciò si è ritrovata a Roma. L’ho corteggiata fin da subito e in meno di un anno, il 5 gennaio 2001, ci siamo sposati nella chiesa di San Cataldo, a Palermo. Nel 2005 abbiamo aperto una società, la Beck & Maltese consulting, che gestisce i nostri progetti».
Insieme avete sette ristoranti. Il prossimo?
«A Venezia, a inizio 2026, a palazzo Donà Giovannelli».
Non avete figli.
«Abbiamo deciso così. I miei figli sono i ragazzi che sono passati dalla cucina».
Clienti vip che ricorda?
«Da noi sono venuti tutti: Ratzinger, da cardinale, ha festeggiato qui i 70 anni. Lo conoscevo perché era arcivescovo quando lavoravo a Monaco. Oprah Winfrey ha seguito il programma Weight Management a Palazzo Fiuggi, dove curo il menu della Spa. Una volta pranzò da noi Rita Levi Montalcini: mangiò poco, ma amò i fiori di zucca con il caviale. J.K. Rowling ordinava sempre i fagottelli alla carbonara. L’attore Mark Wahlberg è un amico, a Los Angeles vado a casa sua. Angela Merkel l’ho conosciuta a Bruxelles con Michelle Obama. Cucinavo per la Commissione europea: mi chiese se volevo una foto con lei. Poi disse: “Però si tolga il pass”».
Si interessa di politica?
«No, non voto, mi interessa che il mondo vada avanti».
Di recente ha cucinato per Giorgia Meloni.
«Un menu romano per la candidatura della cucina italiana all’Unesco: cacio e pepe con spuma di erbe, agnello, maritozzi. Era contenta».
Lei crede?
«Credo in Dio, però non sono praticante. Nel quotidiano è mia moglie che mi aiuta: è la mia coach, la mia psicologa».
Ha un sogno?
«Non mi manca niente, ma con Teresa stiamo valutando una struttura tutta nostra, magari a Palermo. Vediamo».
Heinz, non stacca mai?
«Poco: lavoro sedici ore al giorno da sempre, ma non mi lamento. Ognuno nel team ha il suo carico: io sono il capo. Certo, potrei ritagliarmi più tempo, un equilibrio non l’ho ancora trovato. Also: potrebbe essere il prossimo obiettivo».