La Lettura, 23 novembre 2025
Gusto e potere: così lo zucchero divenne globale
Può un prodotto cambiare il mondo? Nel caso dello zucchero possiamo dire di sì, anche se questo vale per un gruppo di beni molto ristretto, comprendente grano, riso, mais e pochi altri. Oggi la diffusione dello zucchero è così universale da apparire uno dei pilastri della cucina e della cultura da sempre. Invece è una storia relativamente recente, che unisce economia e cultura, potere e gusto, come ha raccontato pionieristicamente l’antropologo Sidney W. Mintz.
Nel mondo antico romano e mediterraneo la dolcificazione era ottenuta per lo più con miele e ingredienti naturali; cominciò però ad arrivare dal lontano Oriente, e in particolare dall’India, una nuova «spezia»: l’estratto cristallizzato del succo di canna da zucchero. Era un prodotto misterioso e affascinante, considerato principalmente una medicina, in grado di dare immediata energia e curare tossi e irritazioni. Nel Medioevo fu commerciato da Venezia, mentre nel Nord Europa rimase quasi sconosciuto fino alle Crociate, quando i cavalieri tornarono dalle loro spedizioni portando nuove conoscenze e nuovi prodotti, fra cui l’esclusivo e costosissimo zucchero di canna.
Le cose cambiarono molto da metà Seicento, dopo le prime esperienze degli imperi spagnolo e portoghese e in seguito francese, quando il colonialismo inglese si espanse fino in centro America, nei Caraibi, dove trovò le condizioni ideali per impiantare grandi e lucrose coltivazioni di canna da zucchero. Il problema era che mancava manodopera; come rimediare? Trasportando sul posto schiavi africani e mettendo in piedi quello che fu un impressionante e disumano «triangolo commerciale». Gli schiavi dall’Africa erano trasportati via mare fino ai Caraibi, dove erano impiegati nelle piantagioni e nella preparazione della melassa grezza (in condizioni di vita proibitive); questa melassa era imbarcata e spedita agli zuccherifici della Gran Bretagna per essere raffinata e trasformata nel prodotto finale (la lavorazione dello zucchero era proibita nelle colonie). Il sistema garantiva ottimi profitti economici sia ai privati sia alla Corona, che da parte sua assicurava la protezione marittima militare: era una forma estrema di capitalismo estrattivo.
Studi recenti hanno sottolineato le trasformazioni demografiche di lungo periodo causate dalla tratta degli schiavi in molte regioni americane, dai Caraibi al Brasile e, più tardi, in aree come la Louisiana, dove le coltivazioni schiaviste di canna da zucchero avrebbero affiancato quelle di cotone. Inoltre va considerato il risvolto ambientalista di queste operazioni, che trasformarono radicalmente l’ambiente naturale autoctono, eliminando tutta la vegetazione per fare spazio alla monocoltura intensiva, con un impatto duraturo sull’ecosistema. E questo non solo in America ma in aree diverse come le Hawaii, le Mauritius e varie regioni asiatiche.
Comunque per molto tempo questa prima globalizzazione commerciale funzionò a pieno ritmo, tanto che la quantità di zucchero prodotta aumentò progressivamente, con l’effetto che esso cessò di essere un lusso per pochi, diventando un alimento accessibile alla borghesia. I nuovi consumatori lo apprezzavano moltissimo: si adattava al loro gusto, aveva un fascino esotico, era un simbolo di classe e si integrava perfettamente con altri beni coloniali come il tè.
Ma ecco un colpo di scena, di cui fu protagonista niente meno che Napoleone. Impegnato in una lotta senza quartiere contro l’impero britannico, egli impose a inizio Ottocento il «blocco continentale», cioè il divieto di attracco delle navi inglesi, per danneggiare i commerci britannici – zucchero in primis. La Francia e parte dell’Europa restarono così senza il prezioso prodotto, finché non si ricorse a un surrogato, ottenuto dalla bollitura dell’umile barbabietola, conosciuto da tempo ma mai sfruttato su larga scala. Certo, era meno nobile ed esotico dello zucchero di canna, ma si produceva localmente e a bassi costi, e così il nuovo zucchero bianco si diffuse rapidamente. I prezzi crollarono e ne approfittarono questa volta le classi popolari: in un colpo solo, ottennero cibi dolci e alimenti molto energetici, due cose di cui storicamente mancavano. Si chiuse così il cerchio della diffusione dei dolci in tutta la società.
E l’Italia, come era messa in questo scenario? Dopo l’unità, l’industria zuccheriera era riuscita a decollare solo grazie a una politica protezionistica con alti dazi sulle importazioni, che aveva favorito poche imprese oligopolistiche e mantenuto alti i prezzi. Così per decenni il consumo di zucchero fu limitatissimo: meno di tre chili a testa all’anno. Per la maggioranza degli italiani rimaneva un sogno, che aveva però una forma molto concreta: un cono bianco e compatto, dalla punta arrotondata, avvolto in una carta azzurro-grigia. Era il pan di zucchero, come si vendeva da sempre, cioè una massa solida di zucchero raffinato che si tagliava o grattugiava (prima dell’arrivo dello zucchero semolato nel Novecento). Un’immagine così potente da ispirare il nome di colli o faraglioni e fissare un colore caratteristico, il «carta da zucchero».
Il salto nei consumi avvenne solo con il miracolo economico: dai 7-8 chili annui pro capite del periodo fascista si passò a 17 negli anni Cinquanta e 25 chili negli anni Sessanta. Dopo tante rinunce, si voleva assaporare il lato dolce della vita, in tutti i sensi (oggi siamo sui 33 chili annui pro capite, con tutte le conseguenze sulla salute che conosciamo). A scapito soprattutto dell’amaro, il gusto per il dolce aveva preso stabilmente il suo posto nella nostra dieta e nella nostra cultura.