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 2025  novembre 23 Domenica calendario

«La lotta per la libertà»

Il prezzo della libertà di Monique è annotato in modo preciso. Somma anticipata da Didier: 200 euro; Frigorifero: 500 euro; Cucina a gas: 300 euro; Taxi per la fuga: 15 euro; Caparra per la casa: 1.100 euro; Versamento per i primi mesi della Nuova Vita: 2.000 euro. Sono i soldi necessari alla madre dell’autore per evadere, per fuggire da un uomo violento e salvarsi grazie all’aiuto del figlio. Monique evade è il nuovo, e coraggiosamente commovente, capitolo del racconto famigliare intrapreso da Édouard Louis dieci anni fa con Farla finita con Eddy Bellegueule: allora era lui a fuggire da povertà, omofobia e violenza di un paese post-industriale del Nord della Francia. Quel romanzo provocò un terremoto nel mondo delle lettere francesi e non solo.
In questi dieci anni Louis ha abbandonato Hallencourt per trasferirsi a Parigi, insegna a New York, soggiorna ad Atene, tiene conferenze in Cina. Ha reso popolare una letteratura dei «transfughi di classe» trasformando le storie della propria famiglia – il padre piegato dal lavoro in fabbrica, il fratello maggiore morto di alcolismo a 38 anni, la madre vittima di violenze coniugali ma capace di emanciparsi – in uno straordinario strumento di lotta politica. Lo incontriamo in un caffè, per un colloquio durante il quale gli aneddoti personali si mescolano alla teoria letteraria, e le lacrime più o meno trattenute si fondono con la forza di una visione del mondo. Ormai 33enne, Louis ha imparato e fatto propri i codici di comportamento della sofisticata metropoli, tranne il distacco. E qui forse sta la sua grandezza.
In «Monique evade» parla molto di vergogna, quella provata al ricordo dei momenti in cui ha deluso sua madre. Quella sera, per esempio, in cui «si era fatta bella» per cenare con lei, e lei ha rimandato per incontrare un celebre fotografo. Sono sentimenti universali, non legati alle classi sociali, alla povertà o al femminismo. Ha voluto scrivere un libro universale?
«Il potere delle letteratura è coinvolgerti, leggi Proust e ti riguarda anche se non sei un alto borghese. Il mio libro parla anche della vergogna e del senso di colpa che proviamo un po’ tutti, dello scarto tra la necessità di costruire le nostre vite e, quando si ha un minimo di tenerezza e di empatia, il dovere etico di occuparci dei nostri genitori, anche quando ci sono stati molti problemi e incomprensioni. Ma senso di colpa e solidarietà sono aggrovigliati, fanno parte dello stesso sistema, non mi sarei occupato così tanto di mia madre, aiutandola a lasciare la casa di quell’uomo, senza il senso di colpa di non averlo fatto prima».
Viste le violenze patite da bambino e da adolescente lei avrebbe potuto risolvere la questione odiando sua madre, rompendo i rapporti. Invece c’è una grande amore tra voi, nonostante il passato e nonostante il salto di classe sociale che ormai vi separa.
«Ma anche questa tenerezza è intrecciata alla violenza che abbiamo condiviso, fanno parte di un’unica storia. Quando ero piccolo mia madre è stata spesso estremamente violenta con me, perché come tutti nel nostro ambiente considerava che non ero normale, ero effeminato, e ne ho enormemente sofferto. Questa violenza di mia madre e di altri mi ha spinto ad allontanarmi, sono stato il primo della mia famiglia a lasciare il paese, per colpa di o grazie a quei soprusi. Ma quando, dopo mio padre, anche l’uomo con il quale mia madre vive a Parigi beve, la insulta e la maltratta, non ho dubbi nel cercare di aiutarla: da bambino lei è stata violenta con me perché mio padre e il mondo erano violenti con lei. Monique evade racconta una circolazione tra violenza ed emancipazione, nella quale le due forze fanno parte di un unico movimento».
Da «Eddy Bellegueule» sono passati dieci anni. Come è cambiata la società?
«Mi pare che ci siano forze che spingono in direzioni opposte, l’estrema destra al potere in Italia o vicina a conquistarlo in Francia, ma anche Mamdani che vince a New York, il dibattito sulla tassa Zucman in Francia, che sarebbe stato impensabile dieci anni fa. Quando giravo l’Europa per Eddy Bellegueule, in Svezia un giornalista mi disse che forse in Francia le classi sociali esistevano ancora, ma in Scandinavia no di sicuro. A fare le pulizie nelle camere d’albergo di Stoccolma c’erano forse i professori universitari? Non credo proprio, eppure la convinzione diffusa era che vivessimo in un mondo post-marxista dove le classi non esistevano più. Oggi credo che la violenza di classe sia meno negata di un tempo».
Quando lei va da sua madre per aiutarla a prendere le sue cose e lasciare chi la maltratta, incrocia lo sguardo di quell’uomo alla finestra, e non prova odio. Anche lui è vittima della violenza del mondo?
«Nei giorni precedenti, quando mia madre era al telefono con me, lo sentivo urlare in sottofondo “sei una gran puttana, smettila di parlare a quel frocio di tuo figlio”, cose così, e mi ero fatto una certa idea di lui. Poi, il giorno in cui con mia sorella andiamo da lei per aiutarla ad andare via, vedo questo piccolo uomo, con questa testa da topo, e mi fa soprattutto pena. Come diceva Hannah Arendt, è sufficiente essere stupidi per fare circolare la violenza, non bisogna essere grandi geni sanguinari. Il dramma della violenza maschile è che riguarda tutti, non solo gli uomini grandi e grossi muscolosi usciti di prigione con i tatuaggi sui bicipiti».
Perché tanti uomini sono violenti?
«Mi sono spesso chiesto perché certa mascolinità venga espressa con i toni di una crociata. Certi uomini non si accontentano di essere virili, devono anche disprezzare chi è meno forte di loro. Mi sono detto che è il meccanismo psicologico alla base del Macbeth di Shakespeare: Macbeth uccide il re per prendere il potere, ma una volta che si è impossessato della corona è tormentato perché capisce di dover proteggere un potere illegittimo. La mascolinità che si esprime nell’aggressività non è mai serena. L’uomo che insultava mia madre era un buffone come Macbeth, in crociata permanente per difendere il tempio della mascolinità. Perché, quando andavo a scuola, i ragazzi non si accontentavano di essere forti e virili, ma mi insultavano, mi sputavano addosso, mi aggredivano? Perché in fondo sapevano che il loro era un potere illegittimo, rubato, non naturale, quindi da imporre e difendere in ogni istante».
In «Monica evade» il tema delle classi sociali torna in modo evidente con il calcolo di quanto è costato a sua madre fuggire da quella casa. Un prezzo che non tutte le donne avrebbero potuto pagare.
«Per capire il prezzo della libertà bisogna pensare alle donne che non hanno potuto pagarlo e sono dovute rimanere a farsi mettere i piedi in testa. Mia madre ha dovuto smettere di studiare molto presto, si è sempre solo occupata della famiglia, non aveva un soldo da parte e ha potuto evadere grazie al fatto che io mi ero liberato prima di lei, e ho potuto aiutarla a pagare quel prezzo».
Per questo annota le spese con tanta precisione?
«Sì, all’inizio ho persino cercato di pubblicare le spese usando i margini del libro, accompagnando le vicende di mia madre con il loro costo, un po’ alla Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso, ma non funzionava. Ho voluto mettere dentro la letteratura ciò che di solito la letteratura considera triviale, volgare, indegno, come il costo di un taxi».
La letteratura obbedisce a regole non scritte?
«Come le regole legate al genere, non sono scritte da nessuna parte, quando nasci nessuno ti dà un manuale dove c’è scritto che un maschio deve fare questo e una femmina quest’altro, eppure le regole sono dappertutto e la società ti punisce se non parli, cammini, vesti in un certo modo. La letteratura agisce allo stesso modo: in teoria non ci sono regole, in pratica esistono eccome. Una delle regole non scritte che cerco di infrangere è che un buon libro dovrebbe essere privo di pathos, altrimenti è strappalacrime e non va bene».
Il gusto dominante prescrive toni asciutti?
«In teoria la letteratura è libertà, ma poi ogni tre giorni leggi un articolo che loda l’ennesimo meraviglioso romanzo scritto “senza pathos”. Lotta di classe sotterranea, perché il nobile in letteratura si definisce di fatto per opposizione all’estetica popolare della telenovela, delle sviolinate che ti dicono quando devi piangere, del romanzo sentimentale strappalacrime, dei quadri appesi in cucina con il delfino che salta al tramonto».
«Monica evade» le lacrime le strappa.
«Rivendico il fatto di provare a imporre un’emozione, senza lasciarla all’arbitrio di chi legge. Non difendo i quadri con i delfini al tramonto, ma l’emozione come tecnica politica per costringere chi legge a guardare la violenza negli occhi e a non voltarsi dall’altra parte, come si fa quando si scavalca un clochard sul marciapiede. Per questo chi mi legge mi ama o mi detesta. Monica evade è davvero un libro fatto per commuovere, per suscitare un’emozione al servizio della verità. La letteratura può servire per divertire, per fare sognare... Ognuno ha il diritto di usarla come vuole. Quanto a me, io la uso sperando di contribuire a cambiare la realtà. Ci sono donne che vengono a salutarmi in libreria per dirmi che hanno lasciato il marito violento dopo avere letto il mio libro: questo voglio fare con la letteratura».
Sua madre subisce la violenza degli uomini, e anche una violenza di classe che si esprime in molti modi. Anche nel cibo c’è violenza di classe?
«Centinaia di piccole cose accumulate, ognuna delle quali di poco conto, alla fine compongono il sistema di classe. Quando mia madre si rifugia per qualche giorno a casa del mio amico Didier (Eribon, autore di Ritorno a Reims, Bompiani, ndr), io mi trovo ad Atene per una residenza di artista e non posso esserle vicino fisicamente. Le propongo di ordinarle qualcosa da mangiare al telefono, magari del cibo libanese, cose che a Parigi sono del tutto abituali, e lei mi dice che non ha idea di che cosa sia, non l’ha mai provato. Non è la fine del mondo, ma la violenza di classe è anche questo, un’esclusione sensoriale, gustativa, olfattiva, una parte di mondo che resta ignoto. Mia madre non ha mai mangiato libanese ma non è neanche mai stata in un hotel, non ha mai preso un aereo. E alla fine la porto con me in Germania a vedere una pièce ispirata alla sua storia, e lei guarda per la prima volta dal finestrino, varca per la prima volta una frontiera e sente per la prima volta per strada parlare un’altra lingua».
E si porta una valigia enorme.
«Piena di asciugamani, non sa che li troverà in hotel».
Lei non osa dirglielo.
«Cerco di non essere invadente, di non esibire la mia dimestichezza, il mio essere ormai, rispetto a lei, una specie di uomo di mondo».
È questo essere transfughi di classe?
«Certo, è anche questo. Da bambini si pensa che appartenere alle classi popolari consista nell’avere pochi soldi e vivere in un casa modesta. Ma il punto è anche che cosa mangio? Parlo a voce alta o bassa? Rido in modo sguaiato o contenuto? Parlo con o senza accento? Che musica ascolto, che film mi piacciono? Al ristorante ordino carne e patate fritte, o pesce? Conta il modo in cui tieni in mano il bicchiere o la forchetta, e il colore dei tuoi calzini, i mobili che scegli per casa, se sei abituato a viaggiare o no. Non c’è una sola porta tra una classe e un’altra, ce ne sono cinquecento, e ogni minimo gesto può rivelare lo scarto che ormai si è creato tra me e mia madre. Per questo cerco di essere prudente, attento, per non esercitare a mia volta una violenza di classe».
Però, forse grazie a queste premure, tra voi c’è grande complicità.
«Perché mia madre è talmente felice della sua nuova libertà che ride delle cose che potrebbero ferirla. Questo è forse il mio primo libro di gioia pura. Nell’incipit del mio romanzo d’esordio, Eddy Bellegueule, dicevo che la sofferenza è totalitaria, fa sparire tutto quello che non entra nel suo sistema. Da bambino soffrivo sempre, anche nelle occasioni in cui avrei dovuto essere contento. Beh, ho scoperto che anche la gioia può essere totalitaria. Mia madre alla fine se ne infischia di non sapere comportarsi in albergo, in aeroporto, o quando la applaudono e la invitano a salire sul palco ad Amburgo».
Tanto che vuole trattenersi con la troupe dopo lo spettacolo, anche se non sa una parola di tedesco o di inglese. La prova definitiva che si è liberata.
«La gioia vince sul rischio dell’umiliazione. Non è stato facile scrivere di questo, non sono bravo a raccontare la gioia. Ma mi sono detto che era una gioia contro la violenza, politica, come quella di chi balla ai Gay Pride alla faccia delle violenze subite».
Lo dice come se la gioia sia un peccato di cui scusarsi, un lusso che non le è concesso sfiorare.
«Il senso di colpa è una maledizione, cerco di liberarmene ma non è facile, come se avvicinarsi alla felicità significhi tradire la causa. Ma la gioia di mia madre è rivoluzionaria, e meritava di essere raccontata».