il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2025
Camilleri, l’ultima caccia alle maschere dell’uomo
L’ombra prende carne e si fa storia. Nasce Samuel e diventa Guglielmo Raimondo di Moncada, l’uomo di cui qui si racconta. Uno e poi un altro è, infatti, il piccolo Samuel, figlio di Sabbetai – rabbino di Caltabellotta – battezzato Raimondo dal conte di Aderno prendendogli il nome e anche la religione. Per assumerne infine – già sacerdote, fervente predicatore – un altro ancora: Mitridate.
Un prisma dove s’intersecano tante esistenze è la vita del fu Samuel ben Nissim Abul Farag. Per tre volte maledetto dal suo stesso sangue, mette in atto la fuga trasfigurandosi nell’ombra delle tante maschere, a partire da ciò che è: uno ed empiamente trino.
Pane per i denti di Andrea Camilleri che con l’immaginazione della verità storica ricostruisce tutte le tappe del soggiorno terreno di Raimondo Moncada, e fa dell’incredibile il racconto più credibile.
Ed ecco il Samuel progredire di prodigio in prodigio. Tale e quale quel padrone di venti lingue – il Mitridate per l’appunto – lo ritroviamo a predicare la Passione di Cristo innanzi a Papa Sisto IV, a tradurre sure coraniche alla corte di Federico da Montefeltro e a traviare giovanetti e diaconi quando sta insegnando l’aramaico e l’ebraico 11 a Giovanni Pico della Mirandola. È lo stesso Pico a spedirlo a processo a Viterbo con l’accusa di assassinio, dove viene imprigionato per ordine di Papa Innocenzo VIII, per poi involarsi nel chissà dove.
Un’ombra in fuga, dunque, che trova parola ma ancor più racconto, se poi è appunto Camilleri a inseguire le tracce di una presenza già sfuggente nel proprio tempo – la Sicilia del Quattrocento – per giungere a noi tramite una inserzione pubblicitaria sul quotidiano della città di Roma, Il Messaggero: “Dal 23 dicembre il mago di Perugia Raimondo Moncada al Circo di Nando Orfei”. Di questo ritaglio Camilleri ne fa il capitolo finale del romanzo Inseguendo un’ombra: “L’ultima apparizione” – così lo intitola. L’assai probabile colpo di scena di questo precursore – perfino più sofisticato e maggiormente perverso – del più famoso Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, è quello di chi, scappando da sbarre e supplizi, altro nascondiglio non trova che il futuro.
Un romanzo storico sostanziato dalla profonda conoscenza del fatto per come fu, compresi i rogiti notarili fin al 1491. Da uno spunto reale, infatti, Camilleri fa indagine immaginifica di Guglielmo Raimondo Moncada “protagonista di un romanzo storico”, confessa, “che non scriverò mai”. Invece eccolo Raimondo, tratto dal pozzo remoto degli archivi, ospite in un tendone issato a Roma, su via Cristoforo Colombo, intento nel suo lavoro di fattucchiere – “giuste soluzioni, felicità e fortuna” – dopo essere stato teologo, scienziato, cabalista, ladro, assassino, impostore. Ed ecco, dunque, l’incredibile Samuel della giudecca di Caltabellotta, abitare tra noi.
Nella fabbrica del racconto nulla è inverosimile, l’enfasi della “storia vera” – ne parla anche Giulio Busi in Vera relazione sulla vita e i fatti di Giovanni Pico conte della Mirandola – poco ag giunge alla conclamata scienza dell’incredibile credibile di cui Camilleri è maestro indiscusso.
Nella memoria collettiva l’ombra è come un vuoto, ma in questo incastro di avventure e di congetture Camilleri – infatti, punto di alta letteratura – si fa carico della fatica dello storico. Descrive un mondo in cui le strade erano segnate in lingua araba e i medicamenti si preparavano studiando i formulari della scienza cabalistica, svelando così l’universalità di quella Sicilia prossima a generare la stagione delle accademie e delle università, e non ancora precipitata nella residualità del campagnolo o, peggio, nella pacchianeria provinciale del pittoresco. Sono per primi i siciliani a non conoscere la propria terra e a non sapere nulla dei tesori dimenticati nella caverna grande dell’oblio, e Camilleri onora una ben precisa suggestione di Lucio Piccolo, poeta sommo: “Non abbiamo i tramonti celtici, certo, abbiamo tutto questo rosseggiare di fuoco, ma cosa non avrebbero fatto i poeti elisabettiani con le nostre storie”. C’è appunto una Sicilia che parla latino e greco e ce n’è un’altra, non disgiunta da quella, tutta di arabo e di ebraico. Leonardo Sciascia traslittera in arabo il nome di Giufà, ne conferma il suono, ne ricava il disegno di un usignolo a riprova dell’identità profonda dell’Isola dove tutta la toponomastica ancora – a partire da Palermo, Baalarm, la Medina dalle trecento moschee – replica ciò che inizia dall’Anno Mille.
Caltabellotta, la città dove germoglia la storia di Samuel, è Qal’at-al-Ballut, le cui radici di memoria gemmano malgrado il vuoto.
Inseguendo un’ombra convoca nella riuscita di un’opera di pura letteratura la vena non sufficientemente svelata dell’ebraismo di Sicilia, riparando così a una mancanza. Fatta eccezione per ricerche specialistiche e le vestigie sparse (la più importante delle quali si trova ad Agira, l’Aron ha-Qodesh in pietra in quella che fu una sinagoga, oggi chiesa del Santissimo Salvatore), l’ebraismo non ha avuto un Michele Amari, l’autore della monumentale Storia dei musulmani di Sicilia. E neppure le voci dei poeti dell’Anno Mille, su tutti il Canzoniere di Ibn Hamdìs, il più affascinante capitolo della letteratura italiana in lingua araba.
Rispetto all’imprinting saraceno degli Emiri della Zisa, di via Giafar, del castello di Maredolce, ma anche di Federico II e della cassata moresca avvolta nella glassa normanna, la radice giudaica ebbe a patire quella stessa ombra che Camilleri, inseguendola grazie a Samuel ben Nissim Abul Farag figlio di Sabbetai, rabbino di Caltabellotta, traduce in luce.
Quel che avrebbero fatto i poeti elisabettiani, insomma, l’ha saputo fare solo lui. Per tramite di arte e letteratura. Restituendo all’ombra la carne. E la storia.