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 2025  novembre 24 Lunedì calendario

I nuovi Marsigliesi: narcos, sangue e vendette. “Sono come la mafia”

La scena è surreale. Davanti alla moschea gremita, alcune donne pregano inginocchiate sui tappeti stesi sul marciapiede, mentre, a pochi metri di distanza, un poliziotto impugna un fucile automatico. È il 18 novembre e il quartiere di Frais-Vallon, a Marsiglia, si raccoglie per dare l’ultimo addio a uno dei suoi figli: Mehdi Kessaci, 20 anni, ucciso a colpi d’arma da fuoco il 13 novembre scorso, in pieno giorno, in un agguato che gli è stato teso mentre scendeva dall’auto dopo aver parcheggiato. Tutta Marsiglia è stata scossa dalla sua morte. Mehdi era il fratello minore di Amine Kessaci, un militante ecologista molto noto in città e fondatore dell’associazione “Conscience”, attiva nei quartieri popolari nella lotta alle discriminazioni e nel sostegno alle famiglie delle vittime della droga. L’inchiesta ha “rapidamente privilegiato” la pista del “crimine intimidatorio”: la morte di Mehdi è stata cioè un “avvertimento” esplicitamente rivolto a Amine Kessaci. “Le modalità dell’omicidio rinviano alla criminalità organizzata”, ha osservato il procuratore di Marsiglia, Nicolas Bessone, contattato dal giornale locale online Marsactu. Amine Kessaci è continuamente bersaglio di minacce a causa delle sue prese di posizione pubbliche contro il narcotraffico. La sua famiglia tra l’altro era già stata funestata dall’omicidio di un altro fratello, Brahim, 22 anni, il cui corpo venne ritrovato carbonizzato in un’auto.
Da settembre, dopo la pubblicazione del suo libro Marseille, essuie tes larmes (“Marsiglia, asciugati le lacrime”, editore Le Bruit du monde), ad Amine è stata affidata una scorta. Il 18 novembre, mentre si svolgono i funerali di Mehdi, nel quartiere di Frais-Vallon c’è un dispiegamento massiccio e insolito di uomini pesantemente armati e di veicoli della polizia. Il dispositivo di sicurezza “considerevole”, secondo le parole della stessa prefettura di polizia, che si aggiunge alla protezione estesa a tutti i membri della famiglia Kessaci, contrasta clamorosamente con il dolore e il raccoglimento legittimo del momento. “Oscilliamo tra tristezza e paura”, confida un abitante. Due giovani donne, avvolte nelle loro abaya scure, aspettano davanti alla moschea la fine della cerimonia. Hanno entrambe 22 anni e conoscono la sorella della vittima. Denunciano “la violenza” del quartiere in cui vivono e si dicono “scioccate dalla poca empatia” sollevata dalla morte di Mehdi. “La violenza, col tempo, si è normalizzata”, dice una delle due. Anche se sono perfettamente consapevoli delle minacce che gravano su Amine Kessaci, si stupiscono comunque per la presenza di così tanti agenti di polizia. Una donna più anziana, che arriva da un altro quartiere, nasconde a difficoltà la sua emozione dietro il velo: “Sono qui come madre, nonna, sorella… come potrei non esserci?”. “Siamo tutti traumatizzati”, esclama un’altra donna. Un po’ alla volta la moschea si svuota. Sulla strada, tra i veicoli della polizia e gli agenti in tenuta antisommossa, si riversa un condensato di tutta Marsiglia, ragazzi del quartiere, amici, vicini di casa, esponenti ecologisti (tra cui la vice sindaca della città, Michèle Rubirola), responsabili politici (come l’ex ministra macronista Sabrina Roubache) e della prefettura, membri di associazioni. Alcune ragazze hanno gli occhi gonfi per il pianto, due uomini si abbracciano. “Se i funerali riuniscono così tante persone, vuol dire che se n’è andata una brava persona”, si consola uno di loro. Due bambine sorreggono affettuosamente una signora scossa da singhiozzi silenziosi: “Tutto bene, zia?”. Delle donne anziane distribuiscono datteri. “È tutto molto triste, irreale, incomprensibile”, osserva una militante ecologista vicina a Amine Kessaci. Ma non aggiunge nulla di più: rispetta la volontà della famiglia che ha chiesto di non fare dichiarazioni finché non sia Amine a prendere pubblicamente per primo la parola sulla vicenda (cosa che poi ha fatto in un lettera pubblicata da Le Monde mercoledì scorso). Il “dolore pesa come un macigno”, dice un uomo premendosi una mano sullo stomaco.
Ma, in questo pomeriggio autunnale, è la paura a impregnare l’aria: “Qui, sappiamo tutti cosa è la paura”, osserva una giovane, con un tono fatalista. Qualche ora più tardi, la cerimonia si conclude nel cimitero di Saint-Henri. Davanti all’ingresso c’è un’auto della polizia con il lampeggiante acceso. “Da quando è successo, non dormiamo più, non mangiamo più – confida un giovane, guardandoci con profonde occhiaie sotto gli occhi -. Ma quello che ci fa più male è pensare che un innocente sia stato portato via solo con lo scopo di intimidire. È come ritrovarsi in un film dell’orrore”. “Qui ci conosciamo tutti, e sappiamo tutto di tutti”, ci dice un giovane che, come tutte le altre persone che abbiamo incontrato, preferisce non dirci il suo nome. La tensione è palpabile. In questo giorno di lutto per Marsiglia, sotto altissima sorveglianza, riusciamo a vedere Amine Kessaci a malapena. Indossa un giubbotto antiproiettile ed è circondato da uno stuolo di agenti armati. “Questo giovane è un morto che cammina”, sussurra un esponente politico locale, prima di scoppiare a piangere. “Amine fa bene a lottare, ma in questa lotta è da solo”, aggiunge una donna. Si respira un profondo sentimento di impotenza. Oggi lo Stato a Marsiglia c’è, ma se ne andrà. Invece, il narcotraffico, con tutte le sue conseguenze, resta. “La paura è ormai un sentimento generalizzato tra gli abitanti di alcuni quartieri, dove lo spaccio di droga si è trasformato in un vero e proprio sistema mafioso – osserva l’attivista Fathi Bouaroua -. E i politici, così come come gli abitanti, osservano inermi quello che succede chiedendosi cosa possono fare”. Bouaroua invita tutti ad acquistare il libro di Amine Kessaci, per sostenere la sua famiglia, ma anche come gesto di resistenza e per far circolare il suo messaggio. Una scena drammatica è stata ripresa dai media alcuni minuti prima che iniziasse la cerimonia funebre nella moschea e le immagini continuano a circolare. Il padre di Mehdi e Amine ha fatto esplodere la rabbia e ha afferrato alcuni giornalisti, scuotendoli per le spalle, implorandoli di filmarlo. Davanti alle telecamere ha urlato: “Mio figlio è morto! Mio figlio è morto! Trasmettete a tutti il mio messaggio. Ditelo al presidente della Repubblica. Che si sappia a destra, a sinistra, in Parlamento: dobbiamo lavorare tutti insieme”. Ha continuato a gridare, rivolgendosi alle persone affacciate ai balconi. La notte cala su Marsiglia. Un gelido vento di maestrale si leva e investe la famiglia di Mehdi, gli amici, gli attivisti e gli esponenti politici rimasti dopo la cerimonia e che si raccolgono in silenzio sotto una tettoia immersa nel bianco lattiginoso della luce di un neon. A pochi chilometri da lì, sulla rotonda del quarto arrondissement di Marsiglia dove Mehdi è stato ucciso, sono stati depositati fiori e candele. Su un bouquet di rose e di fiori bianchi, si legge un messaggio in lettere dorate, firmato da responsabili politici locali: “Questa causa ci riguarda tutti”.
Mentre sabato pomeriggio in città più di 6mila persone sono scese in piazza per un “Corteo bianco” in omaggio a Mehdi e contro il narcotraffico, per mostrare a tutti “che i marsigliesi non ne possono più”. “Giustizia per Mehdi!” ha scandito la folla, a cui è unita tutta la famiglia Kessaci, tra cui il fratello Amine. Al corteo – oltre al sindaco Benoît Payan – hanno partecipato anche esponenti politici dei verdi, anche la presidente del Partito Verde Marine Tondelier, i parlamentari Olivier Faure (Partito Socialista), Raphaël Glucksmann (Place publique), Clémentine Autain (L’Après), il presidente di Debout! François Ruffin e anche esponenti del centro e della destra.