La Stampa, 24 novembre 2025
Il cerchio di Trump tra falchi e colombe
Il piano russo per l’Ucraina, le faide interne all’amministrazione Trump e i negoziati a Ginevra: come collegare i punti delle ultime caotiche giornate nella guerra russo-ucraina? Due premesse e due scenari possibili.
Parto dalle premesse: come molti sospettavano, il piano in 28 punti è stato redatto a Mosca, con qualche contentino a Washington, secondo il manuale dell’arte della manipolazione del Cremlino. Basta leggere sommariamente i contenuti – dal ritiro degli ucraini dai territori del Donbas che i russi non sono riusciti a conquistare, al dimezzamento dell’esercito di Kyiv, fino alla proposta oscena di destinare metà dei profitti della ricostruzione agli Stati Uniti – per capire che il piano è stato scritto dai russi (e addirittura in russo). Redatto al Cremlino e consegnato all’ingenuo inviato del presidente statunitense, Steve Witkoff, trasformandolo magicamente in un “piano americano”, che poi Dan Driscoll, il segretario all’Esercito vicino al vicepresidente JD Vance, avrebbe dovuto far ingoiare a Kyiv. Lo scivolone diplomatico è stato talmente enorme che il segretario di Stato Marco Rubio ne ha preso parzialmente le distanze. Che Vance e Rubio rappresentino ali opposte della politica estera dell’amministrazione Trump è noto: lo si è visto in Medio Oriente, come ora in Ucraina. Come anticipato su queste pagine qualche giorno fa, il piano russo-americano rivela molto di più sulle faide interne a Washington e sulla capacità di Mosca di manipolarle che sulla guerra in Ucraina.
La seconda premessa è che Kyiv non accetterà mai il piano così com’è, soprattutto se i suoi due punti cardine – la ritirata dai territori ucraini, altamente fortificati e dove vivono 200 mila civili, e il dimezzamento dell’esercito, ossia la prima garanzia di sicurezza del Paese – non verranno eliminati. Questi sono i punti che stanno più a cuore a Mosca, non tanto per l’interesse territoriale sul Donbas, quanto perché garantirebbero il riavvio della guerra a breve termine, nettamente a favore di una Russia che nel frattempo si sarà potuta riarmare.
Sebbene il piano non verrà accettato nella sua forma attuale, Kyiv e gli europei non hanno chiuso la porta al presidente Usa Donald Trump. Sarebbe stato controproducente: avrebbe solo spinto il presidente statunitense tra le braccia dell’omologo russo Vladimir Putin e indotto Washington a inasprire ulteriormente la sua posizione nei confronti degli ucraini. Già oggi gli Stati Uniti non sostengono più militarmente né economicamente l’Ucraina, ma si limitano a vendere armi agli europei, che poi le consegnano a Kyiv. La minaccia, però, è che Washington sospenda anche la cooperazione sull’intelligence, cruciale non solo per identificare i target militari degli attacchi ucraini, ma soprattutto per permettere agli ucraini di proteggersi con i sistemi di difesa aerea Patriot, gli unici in grado di intercettare i missili balistici russi che colpiscono città e infrastrutture civili ucraine. Ecco quindi i negoziati a Ginevra, che non a caso vedono la partecipazione di europei, ucraini e americani, questi ultimi con le loro due fazioni: Rubio e Driscoll (per conto di Vance).
A questo punto si aprono due scenari. Il primo vedrebbe il ripetersi di quanto già accaduto dopo il vertice in Alaska. Anche allora Trump aveva intrapreso una pericolosa virata filo-russa, e gli europei, volati a Washington, erano riusciti a mitigare i danni. Non avevano convinto Trump ad aumentare seriamente le sanzioni contro Mosca, ma almeno avevano evitato un totale allineamento delle posizioni di Washington a quelle del Cremlino. Pensavano così di essere scampati al peggio, ignari del fatto che Mosca continuava a tessere la sua trama, nella quale Witkoff e Trump sono ricaduti. A Ginevra gli europei tenteranno di riproporre lo stesso schema, presentando il loro piano alternativo in 24 punti. Se Rubio avrà la meglio, ci riusciranno. In questo caso, vedremo Putin ritirarsi nuovamente dal gioco diplomatico, sul quale avrà perso, ancora una volta, il controllo.
C’è poi un secondo scenario, in cui Trump sceglie questa volta di non distanziarsi dall’amico Putin, trasformando i 28 punti, in tutto e per tutto, in un piano statunitense. È probabilmente ciò che vorrebbe Vance, il cui disprezzo per l’Europa è una costante: dal suo attacco agli europei alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco al suo ruolo nefasto nel catastrofico incontro tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nello Studio Ovale lo scorso febbraio, fino allo scandalo della chat su Signal di poche settimane dopo. In questo caso, gli ucraini, messi di fronte al bivio tra dignità e abbandono da parte degli Stati Uniti, sceglierebbero la prima, come ha già chiarito Zelensky nel suo commovente discorso ai cittadini. Gli europei, raccogliendo una frazione del coraggio degli ucraini, sarebbero costretti ad andare a Washington e chiedere gentilmente a Trump se può almeno farsi da parte, concentrando la sua ossessione per il Nobel sulla pace su altre mete.