Corriere della Sera, 24 novembre 2025
«Mia madre e mia sorella uccise dal mio ex fidanzato Ma in aula mi sono sentita giudicata e sotto accusa»
Con la forza di una sopravvissuta e la determinazione di una 24enne che non vuole vedere la sua esistenza spegnersi, Desyrée Amato riesce a dire tutto quello che bisognerebbe sapere sui femminicidi. Più di tante teorie e analisi. Senza cedere un millimetro della sua dignità, senza perdere la sua struggente delicatezza di fronte alla brutalità di quello che ha subito. Un mese fa il finanziere che le uccise madre e sorella perché le facevano da scudo mentre la inseguiva armato è stato condannato all’ergastolo. Gli avvocati di Desyrée, Marco e Chiara Fagioli, proporranno appello perché venga riconosciuta la premeditazione.
«Il trauma è stato così forte che davvero non riesco ad avere ricordi di quei momenti. Ancora non ho chiara tutta la situazione in cui mi sono trovata. Ricordo la paura, certo. E la sensazione di non poter far niente perché non succedesse quello che stava accadendo».
Non ha mai parlato di quel giorno, se non al processo, e non ha mai voluto apparire. Perché oggi accetta di raccontare?
«Mi sono fatta forza per questa giornata simbolica, mi sono detta che ricordare è importante. Si dice sempre, ad ogni donna uccisa, che deve essere l’ultima: ma poi non è mai così e quindi non possiamo far altro che ricordare. La verità è che il problema non siamo noi».
Chi era Sodano per lei?
«Un ragazzo con cui avevo una storia, come altri ce n’erano stati. Il problema è chi ero io per lui: un oggetto, una cosa sua, una da controllare e con il futuro assieme già scritto. Ma stavamo assieme da neanche cinque mesi, ci dovevamo ancora conoscere e quando glielo dicevo lui si arrabbiava: “Perché, pensi che deve finire?”».
Quel giorno aveva deciso di chiudere.
«Io penso che amore vuol dire anche sapersi lasciare, accettare che una storia finisca. Si può restare amici o no ma bisogna accettarlo. Purtroppo sono una persona buona e non mi aspettavo che mi sarei trovata di fronte una bestia del genere. Anche quel giorno non volevo essere cattiva, cercai di dirglielo con gentilezza, gli spiegai “per ora è così”. Era una persona anche lui, volevo essere gentile sebbene fosse causa del mio malessere».
Gli aveva chiesto di non presentarsi con la sua pistola di servizio, ma lui l’aveva nascosta in auto.
«Mi ha ingannato, se n’è approfittato, ma queste persone sono così, l’avrebbe fatto in un altro momento. Non mi sento tradita, l’ho completamente rimosso».
Prima ancora c’erano stati i messaggi: «Ti farò del male», «Servirà l’esercito»...
«Quei messaggi risalgono a novembre, stavamo assieme da pochissimo. Per due settimane interruppi ogni rapporto. Avevo già programmato di andare a Firenze e così ebbi il pretesto per evitarlo. Avevo paura, sapevo che mi sarebbe venuto a cercare a casa, a danza, come poi mi confessò. Riusciva a tracciare i miei spostamenti con un suo strumento di lavoro. Come si fa a dire che non aveva premeditato?».
Neanche sua mamma e sua sorella l’hanno fermato.
«Di questo non voglio parlare. Chi erano e cosa sono per me non è una cosa che deve diventare pubblica».
Che cosa ha provato a riaverlo di fronte al processo?
«Parecchia rabbia. Era un suo diritto esserci, ma forse nelle udienze in cui non doveva parlare si poteva evitare. E per fortuna era di spalle e io dietro il separé, ma è stato tutto molto irrispettoso».
A cosa si riferisce?
«Un avvocato della difesa ha chiesto di levarlo, il separé, perché non riusciva a vedermi bene anche se venivo ripresa sullo schermo interno. In realtà voleva mettermi in difficoltà facendomi stare di fronte a Sodano. Poi mi hanno fatto delle domande che sembravano voler dare a me la colpa di tutto, hanno messo in dubbio le mie parole pur essendo l’unica che poteva raccontare. Addirittura un consulente medico ha sottolineato che Sodano era sano di mente e la sua era quindi una reazione ai miei comportamenti. Volevano mettermi a disagio ma non ci sono riusciti. Mi sono morsa la lingua e sono rimasta calma. Non ho niente da nascondere».
A cosa alludevano?
«Quando ci siamo conosciuti lavoravo come ragazza immagine in un locale il fine settimana. Una cosa che fanno in tante. Sono bella, indipendente, avevo 22 anni, stavo con le mie amiche. Non era il lavoro della mia vita ma mi piaceva. Invece, dopo un mese che stavamo assieme, lui mi chiese di lasciare il lavoro, di non andare più in quel locale. Non lo trovavo giusto ma ho accettato per non litigare. Eppure ancora mi incolpavano in aula».
La sentenza cosa ha significato per lei?
«Sollievo. È una pena che merita. La mia ferita resterà sempre, ma finché lui è in carcere mi sento serena. Chi me lo dice che fra 20 anni non mi verrebbe a cercare di nuovo?».
Ha ripreso a lavorare?
«Per un po’ sono stata nell’agenzia immobiliare di mia mamma, come mi ha chiesto il nonno, ora non più. Prima di quel giorno frequentavo un’accademia di tatuaggi, mi piacerebbe riprenderla».
Da dove sono ricominciate la vita sua e di suo padre?
«La mia paura più grande era restare sola. Temevo che le persone mi allontanassero, che non mi volessero più con loro per ansia. Invece ho avuto tanta vicinanza e solidarietà. C’è mio padre, ci sono le amiche. Piangersi addosso non serve a niente, voglio solo che Sodano resti lì dov’è ora»