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 2025  novembre 24 Lunedì calendario

I viaggi di Dmitriev, ex Harvard, e la frase «copiata» sul Donetsk: svelato il mistero delle carte Usa

Kirill Dmitriev, il manager che ha trattato per Mosca il «piano di pace», non ha niente degli uomini dei quali Vladimir Putin si è sempre circondato. È nato cinquant’anni fa a Kiev. Non ha vissuto il crollo dell’Unione Sovietica perché a 14 anni si è trasferito negli Stati Uniti, per poi laurearsi a Stanford e Harvard. Non ha ufficialmente esperienze nei servizi segreti, ne ha invece a McKinsey e Goldman Sachs prima di rientrare a Mosca (dove guida un fondo di governo «per gli investimenti diretti»). Non pratica un’esplicita opacità, al contrario pare sempre più impegnato a coltivare il proprio profilo sui social e sui media globali.
Per questo la sua presenza a Miami alla fine del mese scorso è un segno dei tempi. Donald Trump aveva appena firmato le sue prime sanzioni contro la Russia, prendendo di mira le major del petrolio Rosneft e Lukoil a valere dal 21 novembre. Quelle misure sono ora rinviate al 13 dicembre per l’obbligo di cessione delle attività estere, ma restano in vigore per l’export del greggio: da oggi gli addetti di Litasco, la società di trading di Lukoil, non saranno al lavoro.
Anche per questo, le mosse di Dmitriev appaiono parte di una sequenza studiata. Per arrivare a Miami a fine ottobre l’emissario di Vladimir Putin deve aver avuto un’esenzione speciale, perché il suo nome figura nella lista delle sanzioni di Washington (ma non di Bruxelles). La stessa scelta del Cremlino di affidarsi a lui non è un caso. Dmitriev rappresentò Putin già all’incontro segreto del 2017 fra Erik Prince, emissario informale del neo-eletto Trump al suo primo mandato, e Zayed al-Nahyan, che guidava il fondo sovrano di Abu Dhabi.
Ora Dmitriev continua a gestire gli interessi del dittatore, senza delega a spostare una sola virgola di testa propria ma con un tocco perfettamente levigato. Proprio il carattere in apparenza informale degli incontri di Miami deve aver convinto Putin a mandare lui. Ai russi serviva un profilo che combaciasse con quelli di Steve Witkoff e Jared Kushner, rispettivamente socio in affari e genero di Trump: nessuno dei due ha un mandato a trattare sull’Ucraina a nome della Casa Bianca, ma per entrambi vale molto di più il legame personale con il presidente.
Così ha preso forma il paradosso di Miami: le due diplomazie più robuste dell’ultimo secolo, Washington e Mosca, soppiantate da tre uomini di business in una partita che deciderà il futuro dell’Europa. Ne sono usciti i 28 punti di un piano che ha preso forma in vari mesi, benché porti i segni dell’imperizia professionale di entrambe le parti.
Nelle ultime ore varie voci dell’amministrazione americana si sono impegnate a dire che l’ispirazione del piano non è di Mosca, ma almeno un passaggio tradisce le impronte digitali del Cremlino: la proposta che l’Ucraina si debba ritirare dalle parti del Donetsk che oggi controlla ancora ed esse, per convincere tutti, siano (in teoria) «smilitarizzate». È un’idea discussa riservatamente nel governo russo tre mesi fa e oggi rispunta, uguale, nel piano di pace. Deve aver viaggiato con Dmitriev fino a Miami. Quanto al riconoscimento della Crimea, fu offerta da Trump già in aprile. Ma il punto centrale è nella continuità fra il piatto Dmitriev-Witkoff e il vertice Trump-Putin in Alaska in agosto: fra i due c’è un filo che il Cremlino ha sottolineato in questi giorni, citando i «canali di comunicazione» con la cerchia di Trump.
Il lavoro doveva continuare nel nuovo vertice fra i due leader a Budapest, ma è saltato dopo una chiamata fra i ministri degli Esteri Marco Rubio e Sergei Lavrov. Da allora Trump ha deciso di affidarsi a reti così personali e informali da non prevedere, nel loro piano, neanche una ratifica degli accordi di pace nel parlamento di Kiev. Quasi si trattasse di una resa incondizionata.