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 2025  novembre 23 Domenica calendario

Le mani russe e cinesi sul Sudafrica. E il sogno di Mandela è lontano

Piove a dirotto. Piove sempre a Johannesburg a fine novembre, quando si fa pomeriggio. Pensare che è primavera inoltrata. Dietro la cortina fittissima d’acqua e grandine si riesce a malapena a intravedere l’FNB Stadium, gli stemmi del G20, il conclave dei grandi del mondo per la prima volta riunito in Africa. Quindici anni fa tra quegli spalti risuonava senza sosta “Waka waka”, l’inno di Shakira per i mondiali di calcio, i riflettori del mondo puntati sul Sudafrica, il trionfo sul campo della Spagna eroica di Ramos, Puyol, Iniesta e Casillas. Oggi i riflettori tornano ad accendersi per il summit dei potenti. Ma è un altro Sudafrica. E un mondo più in subbuglio e meno governato di come lo conoscevamo allora. Non c’è ballo o tormentone pop che possa cancellare questa cupa sensazione così palpabile qui al confine Sud del pianeta.
«Siamo in una fase di transizione. Cambiano i tempi, cambiano anche gli amici. L’America ci sta abbandonando. Russia e Cina ci tendono la mano, investono, ci sostengono». Mubi guida a fatica un van fra le strade dismesse e crivellate di buche di Soweto. La città “nera”, l’anima profonda di Johannesburg si rivela ai nostri occhi a due passi dal vertice blindato dei leader. Ai grattacieli, gli hotel di lusso e le fontane zampillanti che hanno accolto i capi di Stato e di governo in pieno centro si contrappongono fila infinite di casette in mattoni, tetti pericolanti, baracche e mercatini di strada improvvisati. Soweto è la città-quartiere di Mandela, degli eroi della rivoluzione anti-apartheid che qui hanno mosso i primi passi, prima di sfidare l’esilio, la latitanza, il carcere e la morte. Nasce come città-ghetto, l’esperimento cinico e disumano della segregazione bianca, oggi è un quartiere che pulsa di vita, con buona pace della povertà che ovunque cattura la vista: bambini che giocano a calcio per strada, a piedi nudi fra ruderi, alimentari e saloni di bellezza fatiscenti, le insegne sbiadite e impolverate. Ambulanti arrostiscono teste di vacca e “mogodi”, le interiora. Sullo sfondo le montagne e le miniere d’oro dove lavorano schiere di “Zama zama”, i minatori illegali ricercati dalle autorità, una vita centinaia di metri sotto il suolo che spesso finisce in tragedia: murati vivi, soffocati, senza viveri e acqua.
Del sogno di Nelson, di cui resta intatta la casa natìa, meta prescelta dei turisti, rimane l’orgoglio di un popolo che ha sconfitto l’oppressione razziale tracciando una strada per tanti altri. Mubi, il nostro autista, è di etnia Zulù. «Qui viviamo in armonia. Zulù, Tswana, Pedi, Xhosa (l’etnia di “Madiba” Mandela, ndr). Non credete a quello che raccontano i giornali. I crimini, le tensioni sociali. Il Sudafrica è pieno di persone per bene. Ubuntu, la chiamiamo: umanità».
Ce l’ha con Donald Trump, Mubi. Si scalda mentre ripete le accuse feroci rivolte dal Tycoon al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa in un incontro ad altissima tensione nello Studio Ovale a maggio. Fra queste, il presunto “genocidio” perpetrato – a dire di Trump – dai “neri” al potere in Sudafrica contro i proprietari terrieri bianchi, espropriati e uccisi con la complicità del governo centrale. Non è bastata l’umiliazione in mondo-visione, l’ “agguato” teso a Ramaphosa davanti al caminetto di Roosevelt. Trump ci ha aggiunto i dazi: 30 per cento. Ora il guanto di sfida finale: il boicottaggio del G20. Si è rifiutato di partecipare al conclave dei grandi a Johannesburg. Per giorni i giornali sudafricani, adagiati sui banconi dei bar dei grand hotel nel centro, hanno raccontato di un possibile ripensamento di “The Donald": forse invierà un ambasciatore, magari un diplomatico di stanza a Pretoria.
Invece nulla: al G20 la sedia degli Stati Uniti, che il prossimo anno erediteranno la presidenza, è rimasta vuota. Ramaphosa non l’ha presa bene. Il presidente sudafricano atteso il prossimo anno dalle elezioni puntava molto sul palcoscenico internazionale allestito qui nella capitale. Ha dovuto prendere atto invece di un sostanziale flop diplomatico. Perfino gli amici, russi e cinesi, hanno dato poca guazza al summit dei venti. Vladimir Putin, storico amico del governo sudafricano, si è risparmiato la gita in un Paese che, sulla carta, riconosce la Corte penale dell’Aja e dovrebbe dare seguito al mandato di arresto spiccato contro lo “zar”. Xi Jinping, il presidente cinese, non ha ritenuto invece la trasferta degna di una delle sue (rarissime) apparizioni all’estero: ha inviato il premier Li Qiang. Sono forfait che pesano. E incrinano l’immagine del Sudafrica capofila di quel “Sud mondiale”, il mondo dei “non schierati” che rifiuta l’egemonia americana e alla sicurezza made in Usa preferisce spesso e volentieri la convenienza degli affari. Vanno a gonfie vele quelli cinesi. Fra investimenti e acquisizioni selvagge di aziende di Stato, miniere, porti e aeroporti. L’ultimo impegno di Pechino ammonta a dieci miliardi di euro: è l’investimento, nei prossimi cinque anni, per costruire una “Silicon Valley” a Pretoria, creare il più grande hub tecnologico del continente africano..
Denaro e opportunità che fanno comodo e danno ossigeno al governo Ramaphosa, mentre i sondaggi raccontano un crollo della popolarità, complice la criminalità e gli omicidi che in Sudafrica toccano picchi mondiali. Ma hanno anche un prezzo politico, instaurano un rapporto di dipendenza dal Dragone che irrita gli americani, crea con Washington una distanza divenuta plastica nella sedia vuota del G20. Vive di queste mille contraddizioni il Sudafrica con i riflettori della comunità internazionale puntati addosso. E da queste contraddizioni è travolto un summit che ha perso la sua centralità, in un mondo multipolare che in queste sedi fatica a fare sintesi. È lapidario il presidente francese Emmanuel Macron da Johannesburg: «Il G20 fatica a risolvere le crisi globali. Forse è giunto alla fine di un ciclo».