il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2025
“Dal laboratorio all’impero, così nonna ha creato Fendi”
Una donna “imprevedibile come una grandinata estiva”. Adele Casagrande Fendi non è soltanto la fondatrice della maison che porta il suo nome: è la radice di un modo di intendere la moda, la famiglia e il lavoro che ha inciso nel profondo la storia del Made in Italy. Una donna severa, intuitiva, modernissima, capace di trasformare un laboratorio di pellicceria nella Roma del Primo Novecento in un colosso del lusso. A raccontarla oggi, con uno sguardo insieme intimo e analitico, è la nipote Maria Teresa Venturini Fendi, figlia di Anna, cresciuta tra atelier, prove d’abito e quel rituale silenzioso fatto di gesti, sguardi e disciplina che teneva unite le cinque sorelle Fendi come le dita di una mano. Nel suo libro Adele F. (Salani), Maria Teresa ricostruisce la figura complessa di quella nonna che ha conosciuto poco, ma osservato tanto.
Che ricordo ha della nonna?
Mia nonna non l’ho conosciuta davvero: quando è morta, ero all’estero. E da bambina, da adolescente, mi incuteva un enorme timore. Non si truccava mai, portava sempre lo stesso bastone da passeggio con pomo in avorio: non l’ho mai vista senza. E non cambiò mai pettinatura. Ripensandoci, ho capito che la sua forza – quella determinazione quasi feroce – ha forgiato non solo le sue figlie, ma il destino dell’azienda. Senza il suo imprinting di unità, Fendi non sarebbe stata ciò che è diventata.
Ci spieghi.
Lei obbligava, tra virgolette, ma non troppo, le figlie ad andare sempre d’accordo. Per cinque donne diversissime non era semplice. Addirittura aveva imposto la clausola dei “4 voti su 5” per prendere decisioni in azienda. Una scelta che poteva paralizzare tutto, e invece le ha rese indissolubili, come le dita di una mano.
È vero che da neonate dormivano nei cassetti dell’atelier?
Verissimo. Non voleva portare culle ingombranti, e allora usava i grandi cassettoni dell’atelier, foderati di lino, così da averle vicino a sé anche mentre lavorava.
Adele appare come una figura di disciplina e di coraggio. Il libro si apre con lei che rientra in casa passando dall’abbaino: che donna era?
Era inarrestabile. Impaziente, intuitiva, visionaria. Entrava ai matrimoni degli sconosciuti per osservare gli abiti: i tagli, le stoffe, l’eleganza vera. E insieme aveva un pragmatismo sorprendente: durante la guerra aveva nascosto due capre in cantina per procurarsi il latte.
Lei, però, ne aveva paura. Che cosa temeva?
Il suo sguardo. Uno sguardo che era una sentenza. Non servivano parole: bastava una delle sue occhiate, ed erano stilettate. Quando mi vedeva con un cappotto lungo, temevo che mi chiedesse di aprirlo per vedere come ero vestita sotto. Ero terrorizzata dall’idea di deluderla.
C’è un episodio che fotografa questo rigore…
Alle sfilate in Sala Bianca a Palazzo Pitti. Io avevo dieci anni. Alla fine, tutti applaudivano. Io, spontaneamente, mi unisco. Mia nonna si gira, mi fulmina e capisco che avevo sbagliato: “Non si applaude se stessi”. Era una lezione potentissima: non sentirsi mai arrivati. Mai.
Invece suo nonno Edoardo che uomo era?
Dolce, studioso, pieno di hobby. Passava ore sui libri, tra etimologia, suono, acustica. Diceva sempre che “Fendi” sarebbe diventato un nome famoso in tutte le lingue, perché perfettamente pronunciabile: è stata quasi una profezia.
Il loro matrimonio fu contrastato dalla famiglia di lui. Perché?
Perché nonna aveva sette anni più di Edoardo, lavorava ed era inconcepibile per l’epoca, e aveva un carattere fortissimo. La madre di lui era contraria.
Eppure fu proprio Adele a salvarle la vita anni dopo: la portò a casa da un momento all’altro, la curò, e la signora visse fino a una lunga vecchiaia. Nonna era così: intuitiva, impulsiva, profondamente generosa.
Karl Lagerfeld fu l’unico capace di “rabbonirla”. Che rapporto avevano?
Un legame bellissimo, fatto di rispetto e magnetismo reciproco. Karl diceva che Adele era amabile e severa, di un fascino unico. E mia nonna, che pure era accentratrice e inflessibile, non batté ciglio quando lui tagliò e destrutturò le sue preziose pellicce. Capì subito che era il futuro.
In atelier ha incontrato molte dive. Che cosa ricorda?
Ricordo soprattutto come si muovevano. Osservavo i caratteri, più delle persone. Silvana Mangano era un’apparizione: mediterranea e algida insieme. Vidi anche Luchino Visconti sulla sedia a rotelle, e poi, crescendo, tante altre. Ma un ricordo mi accompagna più degli altri.
La cena a Parigi con Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve.
Sì. Una scena da film. Loro due, separati, ma pieni di affetto. Lei che gli rimbrotta con dolcezza, lui che indugia sulla porta, quasi come un bambino che chiede di restare. Era come assistere alla vita privata di due monumenti. Quella sera ho capito che la grandezza non cancella mai la fragilità.
Il racconto della malattia di Adele è molto duro.
Negli ultimi tempi era aggressiva, mordeva le braccia delle infermiere: immagini crude, difficili da accettare quando hai sempre visto una figura granitica, immortale. Quando sono tornata dall’estero e l’ho vista malata, è stato uno choc. Mia zia Carla, donna fortissima e abilissima negli affari, davanti alla fragilità della madre rivelò un lato tenero, vulnerabile. Mantenne intatta la stanza di Adele, come un luogo di culto.
Qual è l’ultima immagine che le resta di lei?
La vedo in vacanza, diversa dal mito che era a Roma. La vedo più lenta, meno impaziente, dimenticava completamente il lavoro. E lì è nato il mio rimpianto più grande: non averla conosciuta davvero.