la Repubblica, 23 novembre 2025
Guccini racconta Zuppi: “Non lo volevo Papa, avrei perso un amico”
«Ci siamo incontrati per la prima volta al binario 21 della stazione di Milano, esattamente quello da cui partivano i treni diretti ai campi di sterminio nazisti. Con noi c’era anche un gruppo di studenti delle scuole medie, la classe di mia moglie Raffaella. Il treno era pieno di studenti di ogni ordine e grado, in realtà, perché quello era “Il viaggio della memoria”, credo si chiamasse così, organizzato dalla Cgil».
Qual è stata la primissima impressione che ti ha fatto?
«Mi è piaciuto subito. L’ho trovato molto spontaneo e amichevole. Mi ha detto che conosceva molte mie canzoni, che le aveva utilizzate anche per le sue omelie. Insieme ci siamo confrontati con i ragazzi che viaggiavano con noi sul significato del luogo che avremmo visitato e sul terribile genocidio che vi era avvenuto (…). Arrivati alla stazione di Oswiecim, l’attuale Auschwitz, ho avuto l’ottima idea di cadere e Matteo ha avuto subito un’attenzione speciale per me: è stato proprio lui il primo che mi ha soccorso. Da quel momento ho continuato il viaggio con le braccia penzoloni: mi ero fratturato la spalla».
Dopo quel viaggio non vi siete persi, ma avete continuato a frequentarvi.
«Da qualche anno ci vediamo piuttosto regolarmente. Matteo viene a trovarmi qui a Pavana, quando i suoi mille impegni gli lasciano qualche ora di libertà, o magari quando si trova nei dintorni per una celebrazione».
Di cosa parlate nei vostri incontri?
«Di tutto, di cose importanti o meno, delle nostre vite, di cose anche più leggere e futili».
Cosa ti colpisce di lui?
«L’estrema familiarità e la grande umiltà. Io ho sempre detto di essere agnostico, ma non sono mai stato un mangiapreti anche se, in generale, ho sempre un po’ diffidato dei religiosi. Invece Matteo è una persona semplice, vicina; pur essendo un cardinale, non si presenta in “pompa magna” come fanno molti suoi colleghi ecclesiastici. Lo vedo molto affine a come è stato papa Bergoglio, anche lui una figura di grande semplicità».
C’è mai stato un tentativo, magari latente, da parte sua, di aprire uno spiraglio rispetto alle tue posizioni agnostiche?
«Matteo è troppo intelligente per cercare di convertirmi».
Un canale di contatto spirituale però tra voi c’è, o almeno don Matteo lo la trovato in diverse tue canzoni...
«Essere agnostico non esonera dal farsi certe domande sul senso del vivere. Una qualche forma di spiritualità mi appartiene, ed è entrata di sicuro anche in alcune canzoni. Ti faccio un esempio. Ho un amico, il mio miglior amico, che oggi purtroppo non sta molto bene. Ci conosciamo dal 1949. Lui veniva qui a Pavana, d’estate, abitava proprio in questa casa. Passavamo le giornate insieme, tra bagni, camminate, giochi ed esplorazioni varie. Ricordo che un giorno, non so perché, ci siamo rivolti reciprocamente la domanda delle domande: ma cosa ci sarà di là? Allora abbiamo fatto una promessa, tutt’ora valida: il primo di noi due che muore si prende l’impegno di tornare dall’altro a dire cosa c’è di là. Non lo trovi curioso? Pensa che quando ci siamo detti questa cosa eravamo dei ragazzi, avevamo 11-12 anni. Tutto questo per dirti che pensieri come questi entrano nel quotidiano anche di chi non crede; poi fortunatamente li dimentichiamo anche perché, se in ogni momento dovessimo pensare a cosa c’è di là, vivremmo molto male. Ma di sicuro tracce di questa ricerca ci sono state e ci sono nella mia vita, e certamente anche in ciò che ho scritto».
Quale è la canzone in cui pensi che si avverta di più questo respiro spirituale?
«Sicuramente “Dio è morto”. All’epoca la Rai la censurò, la Radio Vaticana invece la trasmise perché aveva capito che non era una canzone blasfema, ma conteneva delle domande. Eravamo nella fase che precedeva il ’68, si preparava una gioventù che voleva ribellarsi a un mondo un po’ incartapecorito, rinchiuso nelle sue tradizioni. Scrissi “Dio è morto” perché volevo dar voce a tanti giovani che frequentavo allora che volevano dire basta a un mondo falso in cui, per esempio, molti di coloro che andavano a messa lo facevano soprattutto per abitudine, per farsi vedere».
Don Matteo lo vedi rappresentato anche nel contesto in cui nasceva quella canzone?
«Sì, assolutamente. I due grandi miti di quel periodo erano John Kennedy e papa Giovanni XXIII che, sotto certi profili, erano due figure rivoluzionarie; Matteo lo inquadrerei proprio lì, in mezzo a loro».
Che cosa pensi di una presenza come quella del tuo amico cardinale ai vertici della Chiesa italiana?
«Dico semplicemente: ce ne fossero di figure come quella di Matteo! Storicamente la Chiesa è sempre stata poco liberale, conservatrice, fortemente collegata al potere, spesso troppo tradizionalista, specie nelle manifestazioni esteriori. Matteo ci dà un messaggio diverso. Ci mostra la semplicità e la profondità del messaggio di Gesù e, come Gesù, è vicino alla gente, si mescola tra la gente».
Ti sarebbe piaciuto vederlo Papa?
«Anch’io, come tantissime persone, sentivo una spinta a fare il tifo per vederlo Papa, però, dentro di me, devo dirlo, speravo di no. E questo era il sentimento dominante.
Per due motivi: innanzitutto, perché credo che lui non avrebbe voluto diventare Papa, e poi per un motivo, lo confesso, assolutamente egoistico; un conto è essere amico di un cardinale, ed è già tanto, un conto è essere amico di un Papa, che è una cosa esagerata. La realtà è che se Matteo fosse diventato Papa, con le immense responsabilità che comporta quel ruolo, non l’avrei più visto».
Qual è, al di là delle parole, il gesto che sintetizza il legame che c’è fra di voi?
«L’abbraccio. Quando ci vediamo ci abbracciamo intensamente, come fratelli. È il gesto della nostra amicizia».