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 2025  novembre 23 Domenica calendario

Dimissioni, scandali e baruffe. Le «grandi avventure» del ministero della Cultura

Al solito: aprono la porta senza bussare. «Fazzo, hai saputo?». Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ruota, lentamente, lo sguardo (proprio quel genere di sguardo che hanno i potenti quando vengono disturbati). «Mic…», gli dicono. Senza nemmeno stare a specificare, perché basta l’acronimo, che poi è pure acronimo di grane, casini, pasticci, baruffe, scandali e scandaletti al ministero della Cultura.
Fazzo, nel gran silenzio di Palazzo Chigi, mantiene la calma. Che è successo stavolta? Dimissioni. Di chi? Del capo ufficio stampa di Giuli.
Anche Fazzolari, come tutti noi, il ministro Alessandro Giuli se lo immagina sempre con il bel panciotto da dandy aristocratico e gli stivali neri identici a quelli di Alberto Sordi nel film Il vigile, più un sorriso curiale sopra il pizzetto biancastro (prima del suo, solo un pizzetto più famoso nella destra italiana: quello di Italo Balbo, e senza nulla togliere a Federico Mollicone, s’intende). Comunque, sì: Giuli ha deciso di accettare le dimissioni di Piero Tatafiore, il responsabile della comunicazione ministeriale. Mentre era a Napoli per sostenere il candidato governatore del centrodestra, il fratello d’Italia Edmondo Cirielli, dagli uffici romani di Giuli sono infatti partiti tre comunicati pieni (l’ultimo, in particolare) di enfatico appoggio politico. Non si fa. Uno strappo istituzionale. I deputati pd della commissione Cultura sono insorti: Giuli è rimasto prima sorpreso, poi ha chiesto chiarimenti a Tatafiore. Il quale, essendo una persona di grande correttezza, oltre che un comunicatore di notevole esperienza, non ha esitato ad ammettere l’errore (probabilmente neppure suo, ma di qualcuno del suo staff). Senza cincischiare: scuse formali al ministro e dimissioni sul tavolo, subito accettate.
La verità è che ormai, nei corridoi del Collegio Romano, sede del Mic, se incontri uno, devi sempre sapere che il giorno dopo potrebbe non esserci più. Rinuncia, abbandono, recesso, ritiro, abdicazione, allontanamento, congedo, licenziamento: sono tutte le potenziali opzioni del destino che, dall’inizio della legislatura, lì dentro possono colpire chiunque. Il primo ad andarsene – provo a seguire un ordine cronologico, se no mi confondo – è Vittorio Sgarbi, all’epoca sottosegretario. Il nostro mitico Vittorione sembra che tenesse in giro per l’Italia lezioni magistrali e conferenze (retribuite). Va via, ma è una perdita: perché, diciamo, al ministero uno che fosse del ramo, e ci capisse qualcosa, sarebbe servito. Non a caso, gli uscieri lo chiamavano «ministro». E così Gennaro Sangiuliano, il titolare del dicastero, s’imbufaliva. Un dettaglio. Perché poi al netto di qualche memorabile uscita – tipo «Dante è di destra», oppure «Times Square è a Londra» – più qualche peccatuccio di superbia, Gennaro non stava andando malaccio. Solo che, di botto, compie un clamoroso errore: s’innamora d’una biondona di Pompei, una certa Maria Rosaria Boccia. Che lo fa scapocciare con seducenti promesse e volgari ricatti, graffi profondi al cuore e sulla zucca pelata. Una drammatica intervista al Tg1, tra singhiozzi e ammissioni, è il preludio alle dimissioni (uscirà dal suo ufficio, a capo chino, mentre gli impiegati gli fanno ala in segno di rispetto). A ripensarci, va dato atto a Jenny Delon di essersi dimesso per una storia sentimentale, certo inopportuna, ma forse veniale, soprattutto se paragonata alle tragiche vicende giudiziarie di altri suoi colleghi, che entrano ed escono dalle aule dei tribunali, e vanno a processo, e però sono ancora tutti lì, al loro posto (lui, nel frattempo, ricomincia dalla sua Napoli, dov’è capolista alle regionali per FdI, con in testa un cappelletto rosso – Make Naples great again – utile anche per coprire la cicatrice profonda).
È così che Giuli diventa ministro. Con Buttafuoco alla Biennale di Venezia, Mellone in Rai, Guerri ritenuto inaffidabile quasi quanto Veneziani, non resta che lui, parcheggiato al MAXXI. Subito personaggione (confermando le perplessità di Fazzolari e La Russa). Parte, alla Camera, con un discorso che è una lunga supercazzola: «... La rivoluzione permanente dell’infosfera globale...». Provoca, sfotte. «La verità – pigola poi – è che il processo di mostrificazione nei miei confronti è stato facile. Si antipatizza in un attimo. Un giorno m’hanno chiesto: “Sul serio mangi fegato crudo?”. Ma quella è una cosa che fanno i salafiti dopo aver squartato gli infedeli». Lui, invece, è solo uno studioso di riti religiosi. Però anche suonatore di flauto. Ex camerata di Meridiano Zero, tra gente che menava. Ex ultrà della Roma, sempre tra gente che menava. Ex condirettore del Foglio. Una laurea in Filosofia presa tardi (davanti ai fotografi). Un libro per dire che Gramsci è vivo. Più un brutto tatuaggio sul petto: «Ma non è, come dicono, un’aquila fascista». Però gli somiglia molto.
Da qui in poi, servirebbero dieci pagine di giornale. Procedo per flash. Ricordando le psichedeliche polemiche con la sottosegretaria Lucia Borgonzoni, leghista salviniana adorata dai produttori cinematografici. Poi c’è Elio Germano che, al Quirinale, alla cerimonia che precede la consegna dei David di Donatello, dice: «Meno male che esiste Mattarella. Perché ho avuto molta difficoltà ad ascoltare Giuli... Il cinema è in crisi. E sentirci dire che va tutto bene...» – segue lettera-appello, «Salviamo il cinema», con decide di firme, da Sorrentino a Moretti, da Salvatores alla Cortellesi. Ancora: nella coda della love story by Sangiuliano, Giuli prima caccia il capo di gabinetto Francesco Gilioli (accusato di «tradimento»), e poi si ritrova dimissionario pure il suo successore, Francesco Spano. Quindi declassa il Teatro della Pergola di Firenze diretto da Stefano Massini, polemizza duramente con il professor Galli della Loggia (che ha osato criticarlo), rinuncia a presenziare al Premio Strega. Nel bordello sul tax credit e sui film fantasma mai arrivati nelle sale (come quello millantato da Francis Kaufmann, l’americano accusato di aver ucciso a Roma, a Villa Pamphili, la compagna e la figlia), ecco le dimissioni di Nicola Borrelli, stimato direttore generale del cinema e dell’audiovisivo al ministero, dimissioni che seguono quelle di Chiara Sbarigia da presidente di Cinecittà. Il 10 novembre, Rep scopre una mail in cui Giuli sollecita più tagli per il cinema nella manovra finanziaria.
Dimentichiamo qualcosa?
Ci sarebbe poi Giuli che difende Beatrice Venezi, «eccellente artista e direttrice d’orchestra». Lasciamo stare. Come disse proprio lui, «siamo figli del terremoto, ma anche figli dell’acqua...».