Corriere della Sera, 23 novembre 2025
Nessuna dote politica, gran senso degli affari. Witkoff, il mediatore che spinge al muro Kiev
Chi lo ha incrociato negli ultimi mesi racconta che per Steve Witkoff si può trattare su tutto. Non esistono principi intangibili, valori morali irrinunciabili. È una regola, certo non particolarmente originale, che il sessantottenne uomo d’affari ha maturato in più di quarant’anni di attività nel settore immobiliare. Nato a Long Island, nello Stato di New York, da una famiglia del ceto medio, il giovane Steve studia da avvocato, mostrando subito uno spiccato talento per il business. Gli anni Ottanta e Novanta si dimostrano propizi: Witkoff compra e costruisce edifici a Manhattan, fino a incrociare un altro imprenditore rampante: Donald Trump, con i suoi progetti iperbolici, i debiti e tutto il resto. Di solito, due così o diventano implacabili rivali o grandi amici. Tra Steve e Donald nasce un sodalizio senza riserve. Scafati, pragmatici fino al cinismo se occorre. Per Trump ciò che conta è «l’arte di fare affari». Per Witkoff è strappare le condizioni migliori possibili nel negoziato. Quando, nel 2016, Donald si candida alle primarie repubblicane, Steve è uno dei pochi che ci crede e lo appoggia anche finanziariamente. In tutti questi anni si sono frequentati con assiduità, hanno giocato a golf e fondato una società insieme, la World Liberty Financial, che si occupa di criptovalute. Witkoff non ha alcuna esperienza politica e men che meno diplomatica. Trump, però, di fatto gli ha affidato le trattative più complicate. A fine ottobre, a Miami, Witkoff ha incontrato Kirill Dmitriev, capo del più importante Fondo sovrano russo per gli investimenti. Al tavolo era presente anche Jared Kushner, il genero di Trump. Risultato: il «piano in 28 punti».
Il ruolo di Witkoff è stato decisivo. Per prima cosa, l’immobiliarista ha messo la parte più debole, cioè Volodymyr Zelensky, con le spalle al muro. Al contrario, ha recepito praticamente tutte le richieste dell’interlocutore più temibile, Vladimir Putin. E, naturalmente, si è preoccupato di trattenere per gli Stati Uniti, per i mediatori, una cospicua parcella per il disturbo. Tutto il resto è scalato in secondo piano: il diritto internazionale calpestato dai russi, il mandato di cattura della Corte penale internazionale a carico di Putin, le competenze della Nato, le prerogative dell’Unione europea. Così ha preso forma lo schema dell’accordo. Zelensky non può che accettare la mutilazione del Paese, rinunciando anche a una porzione di territorio ancora controllato dal suo esercito. Un abominio giuridico. Putin, invece, viene riabilitato. Tutto dimenticato: le stragi di civili, il tentativo di soggiogare una nazione indipendente. Per lui è pronto un posto al tavolo del G8. L’indole di Witkoff si rivela allo stato puro nel capitolo che riguarda la ricostruzione dell’Ucraina. Il testo prevede che gli europei sblocchino 100 miliardi di dollari delle riserve monetarie russe per destinarle a investimenti in Ucraina guidati dagli Stati Uniti, cui finirebbe il 50% dei profitti. «Witkoff dovrebbe farsi vedere da uno psichiatra», ha commentato un diplomatico al sito Politico. Ma da buon mercante, Steve sa che la bilancia di un accordo deve avere due piatti. Quello russo è stracarico di cose concrete. Quello ucraino, almeno per ora, solo di promesse, anche non scontate, va riconosciuto. Come le garanzie di difesa simili all’articolo 5 della Nato: gli alleati corrono in soccorso di un partner aggredito. Infine, Witkoff maneggia con disinvoltura anche strumenti che non competono né agli Stati Uniti e tanto meno alla Russia. Per esempio: il via libera all’ingresso dell’Ucraina nella Ue.