il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2025
Mr. Woolf risolve problemi: così Leonard salvò sua moglie Virginia, pubblicandola. Torna il primo racconto della scrittrice
Londra, giugno 1917. In un palazzetto al 34 di Paradise Road, un’area tranquilla e residenziale del quartiere di Richmond, una pressa manuale sistemata sul tavolo della sala da pranzo ha appena finito di stampare centocinquanta esemplari di un volumetto di trentadue pagine, rilegato utilizzando tre diversi tipi di copertina: una di carta gialla semplice, una stoffa di lino geometrica rossa e bianca e una velina giapponese blu. Il titolo semplice recita Two Stories, e in basso il nome della casa editrice che con quella prima pubblicazione nasce: Hogarth Press. Richmond. Gli editori, e in questo caso anche gli autori del libello, sono Virginia e Leonard Woolf. Come si può notare alla British Library, dove sono conservati alcuni di quei primi esemplari, è il lavoro di due autodidatti: spaziatura irregolare, taglio leggermente asimmetrico e macchie d’inchiostro qua e là. Leonard aveva naso per gli affari, Virginia sapeva rilegare. Lui si occupava di muovere il torchio, lei della composizione. Oggi, quel dittico narrativo, con annesse le xilografie originali realizzate da una giovanissima Dora Carrington, allora ancora studentessa della Slade School of Fine Art e amica della coppia, viene per la prima volta pubblicato nella sua integralità in Italia (dal 28 novembre in libreria con Oligo, con la cura e la traduzione di Sara Grosoli).
La decisione di fondare una casa editrice – lo apprendiamo dai Diari di Virginia – marito e moglie la presero il 25 febbraio 1915, giorno del trentatreesimo compleanno della scrittrice e, come conferma la curatrice del presente volume Grosoli nell’introduzione, fu un’idea di Leonard, che la concepì alla stregua di “una sorta di terapia occupazionale per combattere le crisi maniaco-depressive che ciclicamente colpivano Virginia”: qualcosa di ripetitivo e manuale da fare che la distraesse.
Tuttavia, il motivo era soprattutto un altro. Virginia aveva pubblicato già un primo romanzo nel 1915, La crociera (The Voyage Out). Non è ancora completamente modernista come i capolavori successivi, Mrs. Dalloway o Al faro, un po’ perché Virginia pur intuendo la direzione della sua scrittura deve poterla maturare in libertà, un po’ perché gli editori e gli intellettuali del tempo respingevano le sue sperimentazioni a favore di una maggiore canonicità. Basti pensare che durante un tè a casa di Janet Case, illustre e stimata antichista, la Woolf (nata Stephen) si era sentita dare dalla padrona di casa, dopo aver letto La crociera, il consiglio di dedicarsi a qualcosa di diverso dalla letteratura. “Possedere una casa editrice concesse a Virginia un’inedita libertà espressiva” commenta Grosoli. Soprattutto, un’identità, e di quelle che fanno poi la Storia. Dalla Hogarth Press passeranno poi T. S. Eliot, Katherine Mansfield, Vita Sackville West – non Joyce, come è noto –, divenendo in qualche modo il principale riflesso del gruppo di Bloomsbury.
E, in effetti, nella presente antologia, se da un lato il racconto di Leonard Tre ebrei è un testo realistico e di stampo sociologico – una curiosa miscela di parabola e stereotipi razziali in cui l’autore fa i conti con la propria eredità ebraica –, dall’altro lato Virginia con Il segno sul muro dà voce a uno dei primi tentativi di flusso di coscienza modernista. Basta il suo incipit per capire che stiamo iniziando un vorticoso viaggio al termine dell’interiorità: “Forse fu a metà di gennaio di quest’anno che per la prima volta alzai lo sguardo e vidi il segno sul muro. Per fissare una data è necessario ricordare cosa si è visto. Quindi ora penso al fuoco; al regolare velo di luce gialla sulla pagina del mio libro; ai tre crisantemi nella ciotola di vetro rotonda sulla mensola del caminetto”. Da un particolare anodino come può essere un segno sul muro, la scrittrice attiva il proprio monologo interiore. Che sia un chiodo per un quadro, una foglia, una crepa, poco importa poiché la storia non riguarda davvero la macchia sulla parete, ma riguarda il pensiero, il pensiero che rende tutto liquido, il tempo come lo spazio. Così, inizia una riflessione sospesa tra il volontario e l’involontario, che tocca la natura della realtà, della vita e della morte, ma anche Shakespeare, la scrittura e l’ispirazione.
Tuttavia, la divagazione non ha una meta precisa, Woolf non ha una verità da raggiungere. E anche quando, sul finale, intuisce che alzandosi potrebbe scoprire cosa sia effettivamente quel segno si oppone: “Mi rifiuto. Non mi muoverò. Non la riconoscerò”. Persino il lettore, alla fine, pur non venendo informato su cosa sia quel segno, avrà realizzato che la verità è solo “un’insinuazione” poiché “tutto si muove, cade, scivola via, svanisce…”.