repubblica.it, 21 novembre 2025
Io, dalle macerie della vita all’oro olimpico, sarò testimone anti bulli a scuola”
Oro olimpico di pugilato a Mosca nel 1980, campione mondiale nei superleggeri, poi commissario tecnico, allenatore, attore, Patrizio Oliva, detto “Sparviero”, sembra aver vissuto e vivere ancora mille vite. Adesso il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara lo ha scelto anche come testimonial anti-bulli nelle scuole per la sua storia di riscatto. Una storia, racconta il pugile, «che da Patrizio, l’uomo che sono fuori dal ring, mi ha portato a essere anche Oliva, il campione sul ring».
Patrizio, è felice di entrare nelle classi?
«Sono orgoglioso e onorato che il ministro abbia voluto me come testimone dei valori dello sport nelle scuole. Non guardo il colore politico, qui parliamo di sport, di solidarietà, di persone. Da tempo mi occupo di sociale, sto vicino a chi ha bisogno di aiuto, vado nelle carceri, in teatro racconto la mia vita e poi parlo con gli studenti di bullismo, di criminalità, di droga. I ragazzi oggi hanno bisogno di messaggi positivi».
C’è una crisi generazionale?
«Sì, anzitutto perché vengono abbagliati dai messaggi bugiardi dei social».
Perché bugiardi?
«Perché indicano che la strada per il successo sia quella più comoda, spingono a credere in una ricchezza effimera che non esiste. Nella vita nulla piova dal cielo, è una montagna da scalare. E per ottenere risultati bisogna faticare. Tanti invece crescono senza valori, senza principi e senza regole. E in parte è anche responsabilità delle famiglie: per comprarsi l’affetto dei ragazzi, gli danno ragione a qualunque costo».
Famiglie e ragazzi fragili, si dice, infragiliti dalla società.
«E invece dobbiamo crescere ragazzi forti. Ma forti non significa machisti. Ragazzi che anzi sappiano accettare le loro fragilità, le loro debolezze e trasformarle in punti di forza».
C’è ancora un 9,8% che lascia la scuola. Alcuni di loro lei li ritrova in palestra. Cosa gli dice?
«Vi prego, non lasciatela. Studiare, informarsi, incuriosirsi, acculturarsi è fondamentale. E non per prendere per forza un diploma o una laurea, ma anzitutto per sé stessi, per migliorarsi come persone e migliorare la propria visione del mondo».
Qual è il suo mantra?
«Gamba sinistra avanti, ginocchia piegate e pugni in alto. Nel pugilato è la guardia».
Cosa significa fuori dal ring?
«La gamba sinistra avanti è la posizione con cui proiettarsi nella vita. Le ginocchia piegate simboleggiano il dolore e le angosce che ci accasciano. Ma i pugni in alto sono la rinascita».
Lei ha detto: “Io vengo dalle macerie della vita”.
«Sono cresciuto a Napoli, a Poggioreale, eravamo poveri, facevo 15 chilometri a piedi per andare ad allenarmi in palestra perché non avevo neanche i soldi per il biglietto dell’autobus. Di sette fratelli, uno, Ciro, l’ho perso a 15 anni: era malato di tumore, gli avevano amputato una gamba. Io ne avevo 12 e in punto di morte gli ho promesso che sarei diventato un campione. La boxe mi ha salvato la vita».
Da cosa, oltre la povertà, l’ha salvata?
«Mio padre era un violento, aveva cominciato a bere, picchiava mia madre, avevo paura l’ammazzasse. Potevo diventare così. O finire in braccio alle organizzazioni criminali che mi volevano con loro. E invece ce l’ho fatta. E se ci sono riuscito io, possono riuscirci anche altri».
Come ha fatto lei a salire da lì sul tetto del mondo?
«Lo sognavo da bambino. Mi mettevo davanti allo specchio e mi autoproclamavo campione del mondo. Poi ci ho messo il sudore e la dedizione. Ci vuole autodisciplina, impegno e costanza. Non bisogna abbattersi. Ai ragazzi che incontro lo dico in modo diretto, mi perdonerà: alzate il culo e prendete la vita di faccia. Sulla mia strada ho incontrato decine di raccomandati piazzati sul ring dai dirigenti, li ho messi tutti ko. E lo stesso è stato per mia figlia, la facevo salire in pedana per farle capire cosa significa allenarsi, quali valori insegna lo sport. Aveva me come papà e una mamma insegnante, ora fa la console aggiunta a New York».
C’è anche chi non ce la fa.
«Ma per essere un campione non serve vincere il titolo. L’importante è provarci, non tirarsi indietro. Ci sarà sempre anche chi non crede in te, bisogna imparare ad ascoltare sé stessi».
La boxe è uno sport individuale. Ma non tutti riescono a venir fuori da soli.
«Lo sport insegna anche questo, perché è una metafora della vita e della società. Ci sono le proprie forze, ma poi c’è il rispetto, la solidarietà, la responsabilità di una squadra, l’importanza del gruppo».
Agli studenti parlerà non solo del suo riscatto, ma anche di bullismo.
«Spesso lo prendono sotto gamba, ci scherzano. Ma chi subisce un atto di bullismo, chi viene isolato, allontanato, riceve una ferita profonda che porta anche a gesti estremi. I bulli sono dei vigliacchi che non se la prendono mai con i più grandi, che non salirebbero mai sul ring a gareggiare con un pari peso nel rispetto delle regole. Vanno denunciati ai prof, ai genitori, alle forze dell’ordine».
E ai bulli cosa dice?
«Che il loro comportamento è una forma propedeutica alla criminalità. Anche i criminali sono dei vigliacchi protetti dal coltello e dal branco. Con me ci hanno provato da ragazzo, ma andavo in palestra, mi sapevo difendere, aiutavo gli altri più impauriti, gli dicevo “mettetevi contro di me”. Non era un incitamento alla violenza il mio, è sbagliata, era un modo per smascherarli».
Il suo oro olimpico arrivò lo stesso giorno della strage di Bologna. Cosa ricorda di quel 2 agosto 1980?
«Fu una coincidenza drammatica. Io ero in Unione sovietica, lontanissimo, a fare un’impresa, contro qualche pronostico. Coronavo il mio sogno da bambino, quello che facevo tutte le notti. Quando è diventato realtà, non ho nemmeno esultato più di tanto: quella visione io l’avevo avuta già mille volte».