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 2025  novembre 21 Venerdì calendario

Intervista a Geert Jan Jansen

Da una ventina d’anni in rete circola una fotografia ipnotica: su prato stanno un tavolo mastodontico e sedie altrettanto colossali – così smisurati che un’intera mandria di cavalli ci pascola sotto. Le didascalie raccontano tutte la stessa storia: in quella regione piovosa della Germania orientale una legge vieterebbe di costruire rifugi per il bestiame sui terreni agricoli. Il bisogno aguzza l’ingegno: disposizioni sul mobilio non ce ne sono, né limiti alle sue dimensioni, ed ecco che il contadino proprietario degli equini avrebbe risolto il guaio regolamentare piazzando gli enormi arredi al posto della stalla agognata.
Trovata che ha del genio. Ma è vera? O non è che lo stratagemma promozionale di un commerciante di legna perché la sua attività si veda, e ben da lontano?
La traiettoria di questa parabola – con la sua quantità di tranelli e astuzie, delusioni e malizie – pare proseguire nella figura dell’uomo che mi si fa incontro. Indossa una camicia azzurra, leggermente spiegazzata, su cui ballano degli occhiali appesi al collo con un cordino. Ha l’aria timida e svagata di chi lascia che sia la realtà a dimostrare se stessa – al massimo, lui fermerà la danza dei propri occhiali, li inforcherà e darà una controllata che non stia sbagliando tono. Con lui, è evidente che sarà la realtà a disporre le opportune correzioni. Perché Geert Jan Jansen è uno dei falsari più noti d’Europa. Gallerista, collezionista e pittore, per oltre trent’anni ha dipinto “alla maniera di” Chagall, Matisse, Miró, Picasso, vendendo centinaia di opere finite in gallerie, collezioni private e aste internazionali. Il più delle volte con tanto di certificati e provenienze impeccabili. A ottantadue anni, parla come se stesse ancora mischiando i pigmenti: con lentezza, precisione e una grazia bambinesca. «Essere presi in giro può essere la cosa migliore del mondo» dice sorridendo sornione, come chi ha un suo speciale modo di salvarsi l’anima.
Quando ha capito che una buona storia può essere tutto ciò di cui abbiamo bisogno?
«Fin dall’inizio ho cercato di inserire le mie opere nelle case d’asta: prima in Olanda, poi a Londra, Parigi, New York. Tutto ciò che si vende deve essere vagliato e accettato dagli esperti – e in particolare quelli francesi! – ossia uomini o donne che hanno studiato la storia dell’arte, spesso alla scuola del Louvre, e che per questo credono di sapere tutto, di vedere tutto. Ho imparato presto che la qualità era la mia assicurazione – in qualsiasi momento avrebbero potuto chiamare la polizia… E non amo fare le cose con nonchalance: se intraprendo qualcosa, voglio che riesca bene».
Non si tratta del fatto che un’opera sia reale o meno, si tratta di qualità. Ma se è staccata dalla realtà, allora cosa c’è dentro la qualità?
«Domanda davvero non facile! (ride) Ho accumulato cataloghi su cataloghi, libri su libri, una distesa interminabile di testi sui più grandi artisti. Volevo sapere tutto. E mi sono sempre incantato a guardare le fotografie degli atelier: che tipo di matite, che vernici usavano… se esiste qualcosa come la verità di un quadro, per me abita lì».
Lei è nato a Waalre, nel 1943, e suo padre era un tecnico della Philips appassionato d’arte. Cos’era per lei l’arte, all’inizio? Bellezza, un legame familiare, una fuga?
«I miei genitori mi portarono nei musei già da piccolissimo: la prima mostra fu appena dopo la guerra, a Eindhoven. Ci sono bambini trascinati dai genitori nei musei che poi non ci tornano più. Io, invece, li ho amati fin dal primo momento. Riuscivo appena a camminare e i miei dovevano mettermi sulle spalle per farmi vedere i quadri: prima mio padre, poi mia madre. Si stancavano, ma io insistevo per vedere l’ultimo».
Poi, ad Amsterdam, il lavoro come gallerista.
«Sì, studiavo storia dell’arte e frequentavo le piccole aste in città. Da studente non puoi ambire a quadri costosi… e io ne compravo puntualmente più di quanti me ne potessi permettere. Ero già un collezionista. Dopo qualche tempo, ho iniziato a comprare quadri che pensavo di vendere a un prezzo migliore per poterne comprare degli altri. Quello fu l’inizio».
E com’è nata la sua prima copia? Che, all’inizio, non era una copia – giusto?
«Sì, era una mia composizione».
Solo per pagare le bollette o già come risposta a un mercato che venera i nomi più dei dipinti?
«Feci un dipinto nello stile di Karel Appel – il “Picasso” d’Olanda – e lo portai in una piccola casa d’aste ad Amsterdam. Non osavo presentarlo da Christie’s o da Sotheby’s. E lì, in sala, c’era un celebre architetto amico di Appel: aveva realizzato gli interni della sua prima mostra allo Stedelijk Museum. Insomma, davvero un esperto. E comprò il mio Appel».
Senza battere ciglio?
«No, anzi! Quello fu un evento per me: era la prima volta che vendevo qualcosa in una casa d’aste, pensavo che potesse crearmi molti guai, ero nervoso. Appena conclusa la vendita, uscii dalla sala. Anche l’architetto era uscito fuori e stava conversando con un famoso mercante d’arte. Lo sentii dire: “Non c’è alcun dubbio sul dipinto. Conosco bene Appel e quella tela l’ho vista nel suo studio qualche inverno fa!”. Non era possibile, capisce? Perché io avevo realizzato il dipinto appena tre settimane prima». (e ride nuovamente).
E il prezzo?
«Triplicato. Allora ho pensato: se è così...».
Se è così facile convincerli?
«Non convincerli: così facile che non vogliano rendersene conto. La volta successiva andai a Londra con una gouache di Appel. Inviarono l’immagine a lui in persona, a New York. Disse solo: “È mia”».
Ma perché, pensava davvero che fosse suo?
«In un certo senso, sì. Credo che in quella risposta si riveli il suo modo di intendere la pittura: se il dipinto era di qualità sufficiente, era un Appel. Se era spazzatura, lo rimandava ai mittenti».
Lei parla di “copia autentica”: più che falsificare, si tratta di porre una domanda. Che cosa rende importante, allora, un dipinto: l’anagrafe o l’evidenza del capolavoro?
«Questa è la domanda! Che cosa è reale e che cosa non lo è? Che cosa è autentico e cosa è unico? Un quadro è unico solo perché ci piace credere che sia di Rembrandt, o perché è davvero un capolavoro? Anche senza un grande nome potremmo sospettarne la grandezza. Pensi agli allievi dei grandi maestri! Forse anche loro hanno dipinto quelle che celebriamo oggi come meraviglie. Quando il lavoro è di qualità, convincere diventa facile: il “grigio” di un dipinto, la sua storia, per molti è decisivo».
Nel 1985 va all’Aia, all’archivio del Rkd (Istituto Olandese per la Storia dell’Arte), e infila la fotografia di un suo Picasso tra le schede ufficiali dedicate al pittore: così, se in seguito gli esperti avessero controllato l’archivio, avrebbero trovato la prova dell’“autenticità” dell’opera che lei aveva appena inventato.
«Se è un bel disegno di un bel quadro, qual è il problema?».
Non fa male a nessuno?
«No, assolutamente no! È un modo per aggiungere bellezza alla tradizione, in un certo senso. E anche per permettere a più persone di avere accesso all’arte. In un’intervista rilasciata qualche tempo fa in Olanda tutti si sono arrabbiati quando ho detto di aver cercato di democratizzare un mercato che è solo per ricchi. Ma lo credo profondamente: ognuno dovrebbe poter avere un Picasso in camera propria».
Mi porti alla mattina del 5 maggio 1994, quando la porta del suo atelier a Linazay si aprì e la polizia trovò le stanze piene di dipinti. Quale fu la prima emozione: paura, sollievo o “finalmente si accorgeranno di me”? Si parlò di circa 1.600 opere…
«Sì, questo lo dissero loro, io non le avevo mai contate! Due furgoni e mezzo le portarono via dal mio studio verso il Palais de Justice di Orléans. Era qualcosa che avevo sempre cercato di evitare. Quando poi il giorno arriva, accade tutto in un modo completamente diverso da come l’avevi immaginato prima».
Perché diverso?
«È stato un amico. Quello che io pensavo fosse un mio buon amico. Aveva un suo problema con la giustizia francese; portando la polizia a casa mia, lo avrebbe risolto».
In effetti, un’altra cosa sorprendente è come sia stato “smascherato” da un errore di battitura in un certificato di autenticità, non da un’imprecisione nei dipinti.
«Sì, è stata colpa di una sola lettera: la “s” della stramaledetta ortografia francese! Quella che trasforma environ (“circa”, in francese) in environs (“nei dintorni di”). Una differenza microscopica, ma fatale».
Questo potrebbe voler dire che, alla fin fine, nell’arte, la carta conta più del quadro?
«A volte sì. I certificati sono cruciali. Delle 1.600 opere confiscate a Orléans non poterono provare con certezza che cosa fosse mio e cosa – per dire – di Picasso. Esiste un margine che nessuno, a tutt’oggi, può indicare con sicurezza. Rimasi in carcere sei mesi ma mi dovettero rilasciare: nessuno aveva denunciato alcun reato, né gli esperti, né i compratori…».
Quando si mette “dietro” ai grandi artisti e la sua mano cerca di seguire lo stesso percorso, che cosa vede? È pura tecnica o succede qualcosa di spirituale?
«Entrambe le cose. Non riesco a separarle. Altrimenti, non avrebbe successo, credo».
Con Van Gogh, ad esempio, non è una mera questione di colori, ma una magia, un affatturamento dell’espressione.
«Sì. Bisogna conoscere tutta la sua storia, con il fratello, i problemi… Vendette un solo quadro! Fu una lotta per lui, tutta la sua vita. Una grande lotta.
Rifacendo questi artisti, si impara a conoscerli molto bene. Per esempio, Matisse e Picasso erano buoni amici, ma avevano due caratteri opposti. Matisse usava il carboncino nero e questo… succedeva anche perché rispettava i suoi modelli. È meraviglioso quanto rispetto avesse per le donne che dipingeva, azzarderei un rispetto miracoloso! Picasso era un personaggio radicalmente diverso, non certo così gentile con le sue modelle. Le donne per lui erano dee o zerbini, e il periodo delle dee non durava mai quanto l’altro. Lui prendeva qualcuno, lo smontava – anzi, di più, lo tagliava a pezzi e lo trasformava immediatamente in un Picasso. Non era simpatico».
Nel suo lavoro attuale usa una teiera da cui cola sulla tela il colore. Dopo aver passato una vita a padroneggiare l’inganno, ora vorrebbe provare forse a dominare il caso?
«È un’invenzione nata da un errore. Ero ancora nel mio castello-studio in Francia, avevo preparato troppo acrilico e quello non si può usare il giorno dopo perché asciuga molto rapidamente. Di solito lo buttavo via, ma quella volta c’era una tela e l’ho versato. Così, senza pensarci. Il giorno dopo mi sono detto che poteva diventare un metodo».
E che cosa cerca in quel gesto?
«La traccia di un passaggio. Sa dov’è la Val Camonica? Ecco, lì ci sono più di 40 mila rilievi preistorici: le radici della rappresentazione umana. Si tratta del momento esatto in cui l’Homo sapiens si differenzia dalle scimmie. È molto stimolante per me. Andando lì sulle prime non si vede nulla, ci si chiede dove sia quello che si dovrebbe vedere. Poi, basta accendere una luce e…».
Quindi alla fine lei è uno che si fida della natura?
«Sì, certo. Ma non riprendo esattamente quelle forme. Piuttosto, immagino un muro sul quale siano passate delle persone. È una sorta di arte di strada, dire: “siamo stati qui”».
In tele che sembrano aprire a tutti i sentieri possibili, quando arriva il momento in cui capisce che il dipinto è finito?
«Quando, dopo averlo guardato per tante ore quante ne impiego a lavorarci, non voglio più aggiungere o togliere nulla. Allora diventa silenzioso».
Per anni ha moltiplicato la sua identità. Ora, quando si sveglia, chi trova allo specchio?
«Al primo posto c’è un pittore».
Era questo l’obiettivo?
«Sì, credo di sì. Ma ho fatto molte deviazioni. Ho perso tempo, troppo tempo. Ecco perché ora ho fretta: devo completare il lavoro».
E allora, dopo tutti i nomi, le mani, le storie, direbbe di essere felice oggi?
«Sì. Sì, sì e sì».