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 2025  novembre 21 Venerdì calendario

L’arte del falso che inganna anche i musei

Ma se all’indomani del rocambolesco furto dei gioielli di Napoleone, il Louvre avesse clonato la Gioconda per esporne una copia, ricoverando quella vera al sicuro nei caveau, chi se ne accorgerebbe? Come diceva Walter Benjamin nel memorabile saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, definirla un “falso” sarebbe crudele, perché a volte le riproduzioni sono meglio del reale. Più agili, fruibili, accessibili, condivisibili. Per non parlare del risparmio sull’assicurazione! In tempi sospetti di fake, di verità alternative e di percezioni sfasate, il termine “falso” implica però una varietà nutrita di distinzioni che, nel panorama dell’arte, è rimpolpata pure dalla lunga letteratura dei fake vintage.
A detta degli esperti, il falso in arte può essere infatti antico, moderno o contemporaneo; con sfumature che spaziano dalla copia d’epoca (dunque storicizzata...) all’esemplare “che ha l’aria di…” ma eseguito da un seguace, da un allievo, oppure dall’aiutante fidato e bravissimo che induce a confonderlo col maestro. Altri pezzi autografi, cioè originali, sono stati ritoccati così tanto, nel corso di interventi o restauri successivi, da non appartenere più alla mano che li ha partoriti. In una parola, posticci.
Di declinazioni come queste, in giro, ce ne sono parecchie. Molte sul mercato, nelle aste internazionali, nelle mostre o nelle collezioni private. Un po’ meno nei musei che, per buona prassi, verificano con acribia il proprio patrimonio, esposto nelle sale o chiuso nei depositi, seguendo campagne di catalogazione, analisi e studio mirato a ricondurre ogni opera alla sua vicenda e a stilarne un pedigree.
Tuttavia, a pochi giorni dalla retata che i carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio hanno messo a segno al Palazzo Tarasconi di Parma, sequestrando una ventina di litografie di Salvator Dalí ritenute fasulle e denunciate dalla Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres, il dubbio sulla bontà di quanto viene propinato al pubblico macina nell’ombra e si nutre di altri fatti recenti. Come i falsi reperti archeologici esposti all’Ara Pacis nel 2023 per la mostra Lex. Giustizia e diritto dall’Etruria a Roma, scoperti dalla Procura della Capitale che ha confermato la perizia sui pezzi tarocchi ammantati di gloria imperiale. Il maxicaso dei Modigliani sospetti esposti a Genova nel 2018 (la grande beffa continua dopo quella leggendaria del 1984...) ha coinvolto numerosi dipinti posti sotto accusa, comprese tele ammirate in passato da giganti come Berenson, Russoli o Palma Bucarelli, in viaggio dal Pushkin di Mosca a Praga, a Parigi, e uscite da fondi storici torturati, ora, dal dilemma di aver custodito per anni delle patacche.
Gli americani, facendo la conta dei fabulous fake rilevati nelle loro raccolte – fra cui un’infilata di Gauguin sparpagliati dalla National Gallery di Washington al blasonatissimo Fine Arts di Boston – hanno calcolato che un buon 10 per cento delle opere d’arte conservate nei musei potrebbe essere falso. Colpa pure di celebri truffe da Corte Suprema, come il pasticciaccio combinato negli anni 90 dalla newyorchese Knoedler Gallery, complice nella vendita di quadri di espressionisti astratti americani, tipo Jackson Pollock e Mark Rothko, diffusi anche in collezioni pubbliche. Alcuni sgamati, altri ancora acquattati nelle sale.
Ma attenzione, si parla prevalentemente di piazza americana e c’è un motivo. «L’Italia, a partire dalla fine del Settecento, è stata oggetto di una attenzione mercantile internazionale straordinaria, che generò una enorme massa di opere false» spiega Stefano Baia Curioni, direttore di Palazzo Te a Mantova e storico dell’economia. «Squisiti falsari hanno inondato il mondo di oggetti di natura archeologica. I nobili commissionavano copie perfette del loro patrimonio per non ammettere di averlo liquidato. Poi qualcuno smerciava esemplari veri, qualcun altro i falsi. Difficile dire cosa abbia preso il volo per gli Stati Uniti».
Durante il classico Grand Tour europeo, i ricchi del nuovo mondo stipavano i bauli di acquisti destinati a suggellare il loro status. Isabella Stewart Gardner, arricchita dall’attività mineraria del padre scozzese trapiantato in Pennsylvania, saccheggiò interi palazzi veneziani degli arredi e pure delle finestre gotiche. Dagli acquisti dei big businessmen, come i Vanderbilt o l’altro magnate delle miniere Solomon R. Guggenheim, sono nate le fondazioni più stellate di New York. Una fiera delle vanità che ha portato al boom della contraffazione, di cui è stato vittima persino il Getty di Los Angeles, noto alle cronache per alcuni capolavori nostrani pervenuti per vie traverse, oltre che per il falso Kouros demolito da Federico Zeri con lo stesso occhio chirurgico che sbugiardò le teste di Modì definendole «paracarri incisi».
Qualche anno fa, grazie alla Operazione Teseo dei soliti efficientissimi carabinieri del TPC, è rientrata dagli States una sessantina di pezzi archeologici trafugati nel tempo e risultati in parte farlocchi. «Occorre dire che i falsi del Sette o Ottocento assumono a loro volta un valore di storicità e fanno ormai parte della letteratura archeologica» chiarisce Paolo Giulierini, ex direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che ha guidato un lavoro di indagine straordinario sulle collezioni del museo partenopeo, valutando 15 mila reperti di cui almeno il 10 per cento finto. «Nei musei italiani il rischio è comunque ridotto, perché l’Italia non ha mai avuto bisogno di acquistare, a differenza degli stranieri». Costantino D’Orazio, direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, spezza una lancia per le competenze: «I nostri depositi sono talmente ricchi che potrebbero custodire quadri antichi sospetti, ma grazie alla preparazione dei conservatori, ai monitoraggi continui e alle tecnologie, possiamo dormire sonni tranquilli».
Meno tranquille sono le notti dei musei d’arte moderna e contemporanea. Sempre secondo una stima del nucleo tutela, nel 2025 l’80 per cento dei sequestri ha riguardato dipinti, sculture e stampe del Novecento, coi nomi di Picasso, Klee, Giacometti, le cui fusioni multiple hanno invaso il mercato. Per l’Italia spopolano tristemente i vari Guttuso, Boetti, Manzoni, Schifano o le piazze di De Chirico, che pare autenticasse roba non sua, pur di lucrarci un po’.
Inutile dire che la sintesi dei moderni sia più facile da imitare rispetto alla perizia infinita di un Velázquez, anche per via di materiali che sono comunque recenti e non crollano alla prova dei raggi X. Lo racconta bene il Fälschermuseum di Vienna, l’unico museo al mondo dedicato alla contraffazione, che snocciola i metodi di falsificazione più raffinati, insieme a gialli dell’arte, biografie di grandi truffatori, e spiega la differenza fondamentale fra il falso fraudolento e l’opera non autografa che confonde le acque. Vedi, per esempio, il cosiddetto “Caravaggio della discordia”, la Giuditta sbucata dal controsoffitto di una villa di Tolosa ed esposta a Brera nel 2016, fra gli strali della critica e l’ipotesi che l’autore fosse piuttosto il collega fiammingo Louis Finson. Va da sé che, cambiando il nome, cambia il prezzo. E, infatti, prima di una stroncatura definitiva, la bella Giuditta s’è inabissata fra i salotti di una residenza privata orgogliosa del “suo” Caravaggio.
Vale lo stesso per il controverso Salvator Mundi attribuito a Leonardo, che ha scatenato il dibattito fra studiosi, con in testa Carmen Bambach, curatrice del MET di New York, massima intenditrice del genio toscano, convinta che la mano sia quella di Boltraffio, assistente di Leo nella sua bottega. Il Louvre avrebbe dovuto esporlo nella sua sede di Abu Dhabi ma, dopo la querelle, la tela è stranamente sparita nella collezione di qualche principe arabo.
«Il dipinto era sicuramente dell’epoca, ma spelato, distrutto, pesantemente rimaneggiato. Anche se fosse stato di Leonardo, c’è da chiedersi quanto sia rimasto di lui» dice Simone Ferrari, professore di Arte moderna all’Università di Parma ed esperto di Dürer. «Qui il concetto di falso vira nella direzione del lifting che, di fatto, è pur sempre un inganno. Ma solo l’occhio del conoscitore può coglierlo. Basti pensare a come Everett Fahy, uno dei più brillanti indagatori della pittura rinascimentale, sconfessò pezzi fasulli in ogni angolo del Pianeta». Non ce ne voglia Fahy, ma oggi l’Ia fa il suo mestiere e agisce da detective, esibendosi in attribuzioni che rischiano di lasciare i critici disoccupati. Come nel caso di un Rubens alla National Gallery di Londra, un Sansone e Dalila pagato caro in asta e messo in dubbio dall’Ia che, al termine di una complessa serie di test, lo ha dichiarato falso al 91 per cento.
E l’altro 9? Sta tutto nella sensibilità, nella poesia, nella finezza di chi ne percepisce l’aura.
Ovvero la sua unicità, come diceva lo stesso Benjamin che, pur difendendo i falsi, inneggiava al piacere del vero e dello sguardo che lo contempla. Persino le copie realizzate per comprensibili scopi conservativi fanno riflettere sulla percezione deviata dall’autentico, che si accontenta dell’immagine e dell’apparenza. Come accade per le sculture di piazza della Signoria a Firenze o per le pale d’altare in San Pietro; oppure nelle grotte di Lascaux, ricostruite identiche a pochi metri dall’originale, dove è proibito accedere per non fiatare sulle pitture rupestri, fra branchi di cavallini e bisonti. Il pubblico entra ed esce felice, pur consapevole che sia una grande e magnifica illusione.