la Repubblica, 21 novembre 2025
Verri e quell’idea chiamata libertà
Verri sembra avvertire i pericoli “popolari” della Rivoluzione – anche se siamo nel 1790 –; non per nulla l’invito all’aristocrazia a abdicare a una parte dei suoi privilegi e a negoziare un accordo sulla base di una costituzione che moderi il potere sovrano e salvaguardi la proprietà, è fatto in nome di una possibile minaccia rivoluzionaria: «Se trascuraste di procurare una costituzione custodita da un corpo indistruttibile per cui sia assicurata la proprietà… voi stessi sarete autori di tutti i mali che continuerà a far per l’avvenire il potere ministeriale. Voi stessi sarete autori di una rivoluzione funesta, e della carneficina dei vostri concittadini, giacché il dispotismo così va sempre a terminare, e chiunque ha occhi ne scorge l’epoca non rimota». Il progetto di costituzione è il mezzo per attuare il “fronte” politico più largo possibile, che difenda contemporaneamente nobiltà, clero e borghesia dal pericolo del dispotismo o di una rivoluzione. (…)
La polemica contro la «volontà sovrana irresistibile» del despota, che rovescia «le leggi, i sistemi e le opinioni sino a quel punto rispettate», porta in questi scritti all’enunciazione di un metodo di riforma che prenda «gli uomini dalla parte della opinione» e preservi «colla pubblica educazione la generazione crescente dai pregiudizi». In questa coincidenza di “gradualismo” e di persuasione nell’opera riformatrice, l’ostilità ai mezzi rivoluzionari e ai mutamenti radicali, che è senza dubbio legata alle sue posizioni di compromesso, si fonde con una difesa dell’opinione pubblica e del consenso popolare. «Toute puissance civile ou militaire n’est fondée que sur l’opinion, sire: et dès que l’opinion nationale est changée, la révolution est inévitable» dice, nel Dialogue des morts, Voltaire a Federico II. (…)
Questi motivi di un accordo con le vecchie forze e di uno sfruttamento pacifico delle conquiste della rivoluzione dovevano rimanere inoperanti sul piano pratico, ma continuavano come filone continuo nel pensiero di Verri, a costituirne la spinta ideale, e trovavano la propria risultante psicologica in quelle invocazioni di quiete, di pace che corrono nel suo carteggio. Ma questa tendenza riformistica, e le sue possibili concessioni “tattiche”, non offuscano, nella penetrazione dei fatti, la sua intelligenza così acuta e così spregiudicata («machiavellica» diceva Alessandro); sicché le sue pagine sulla Rivoluzione offrono una prospettiva molto profonda e penetrante, volutamente realistica e antimoralistica. Così per esempio l’uccisione di Luigi XVI è anzitutto una «impolitica atrocità» (che però può essere giustificata con Machiavelli) e impolitica è la lotta antireligiosa dei giacobini, ma tutti gli “orrori” della rivoluzione sono spiegati col fatto che il popolo non può «rimediare ai molti abusi consacrati dall’antichità della loro origine senza una scossa generale» e coll’essere dai grandi avvenimenti «inseparabili le irregolarità, i delitti e gli orrori d’una anarchia, o di un potere dittatorio esaltato dall’odio dell’antica oppressione e dalla smania di un nuovo ordine di cose».
Ma attraverso questi disordini la Francia camminava «a una libertà sincera fondata sulle leggi». Insisteva poi contro la persuasione, che era in molti, di un distacco tra le masse popolari e i capi della rivoluzione; e notava che i diritti dell’uomo erano stati «solennemente proclamati, e fatti accarezzare anche agli uomini di campagna»; e ricordava il carattere nazionale-popolare dell’esercito francese opponendolo agli “schiavi” e agli “automi” degli eserciti confederati.
Giungeva a intuire, con una notazione acutissima, il legame profondo che intercorreva tra dittatura giacobina e le esigenze popolari, e a scoprire le linee di una “legge” sotto le apparenze dell’anarchia: «La rivoluzione di Francia nasce da uno spontaneo movimento della grande pluralità del popolo, non mai dalla minorità di alcuni che conducano la pluralità. Questa pluralità conosce che nel tempo de’ pericoli forza è che il potere stia nelle mani di pochi… Nessun stato Europeo oggi è più lontano dall’anarchia di quello che lo sia la Francia». Ed era portato a riconoscere, contro un motivo del suo pensiero, che era stato un errore considerare «la plebaglia… come una mandria stupida nata per servire»; anche se questo riconoscimento, con tutti gli altri motivi storiografici, dovrà rimanere al di fuori della sua opera politica.
La influenza della Rivoluzione francese su Verri fu diretta in special modo a accentuare certi aspetti del suo pensiero e della sua figura. Particolarmente insistente, in questo periodo, è la ripresa del motivo dell’energia del carattere, di un rilievo robusto della personalità; e, in relazione, di un’educazione morale degli italiani che, affermava nel 1790, solo il regno della “legge” potrà trasformare da schiavi in sudditi. Sono atteggiamenti che prendono rilievo nel passaggio dal problema delle “riforme” a quelli della libertà e della rappresentanza popolare; e si legano quindi allo svilupparsi della polemica antidispotica e anti-cortigiana e a simpatie morali per il popolo e per il governo popolare.
Anche il suo linguaggio risente, sia pure in maniera moderata, dei modi della pubblicistica rivoluzionaria: l’accettazione di miti come quelli di Bruto e della virtù repubblicana è sostenuta da una prosa più entusiastica. Ma è un’influenza, si può dire, che non va oltre questi aspetti psicologici e formali o resta ferma alla sua comprensione di storico; la valutazione positiva della “scossa”; dell’energia rivoluzionaria – che avrebbe potuto liberare Milano dal torpore e dalla abiezione – e della politica dei giacobini si spuntano contro la sua fondamentale tendenza a non aprire una lotta tra le classi, per non turbare l’equilibrio delle forze e la distribuzione della proprietà.