Corriere della Sera, 21 novembre 2025
I veleni, le condizioni imposte, le frasi sulla «campagna triste». Il potere di don Vincenzo che resta al centro di tutto
L’attesa, la pioggerella, le chiacchiere, le lingue struscianti sul piazzale della Mostra d’Oltremare. «Maronn… e quant’è forte ancora o’ president». «Aro’ stà?». «‘O i’ lloco, sta arrivando…». «Benvenuto… don Vincenzo bell!».
Dentro, nel foyer di marmi grigi del teatro Mediterraneo, tra candidati e portaborse, qualche anziano compagno di Bagnoli e signore in ghingheri scese dal Vomero, locale dimensione di ztl dem, in un’euforia diffusa perché la vittoria del centrosinistra appare calda e l’ha annusata pure Giorgia Meloni, che infatti non torna e abbandona così Edmondo Cirielli al suo destino, ecco Roberto Fico mentre si aggira stringendo mani con un sorriso stampato, fisso, che può essere la classica smorfia da campagna elettorale, certo, ma anche quella di uno rassegnato: forse cosciente che, se sarà eletto governatore, avrà a fianco, al di sotto, dietro e al di sopra, il suo predecessore. Appunto, don Vincenzo (De Luca).
La notizia è questa. Poi, volendo, ce ne sarebbe un’altra, più «prêt-à-porter»: perché tra poco, sul palco, accanto a Fico, saliranno insieme Elly Schlein e Giuseppe Conte. Che – non si capisce se per capricciose impuntature personali o proprio per dare un bel vantaggio agli avversari – non s’erano mai fatti vedere mano nella mano in questa tornata di regionali. Sempre separati e distanti ai comizi di chiusura: nelle Marche, in Calabria e persino in Toscana, dove il cosiddetto campo largo, tanto immaginato, è stato poi attuato concretamente.
Qui, in Campania, per arrivare ad assistere a quest’atto finale di unità, abbiamo dovuto sorbirci una commedia tra Eduardo (per la complessità, diciamo, dei personaggi sulla scena) e Shakespeare (quando il tragico diventa comico). Essere o non essere? Li appoggio o non li appoggio? De Luca, appena ha capito che un terzo giro a Palazzo Santa Lucia gli sarebbe stato precluso, ha deciso di dettare le sue condizioni. Però prima ha fatto la parte del cattivo. Un pomeriggio, gli chiesi di Elly. E lui, con la voce tremante: «El… Ell… Chi? Chi dovrei sentire? Era forse possibile ragionare con Breznev? No, io non parlo con quei farisei del Pd. Anime morte…”.
Elly e don Vincenzo si detestavano. Lei lo considerava il più temibile di tutti i cacicchi e, il giorno in cui fu eletta segretaria del Pd, aveva solennemente promesso di cacciarlo. Ma cacciarlo avrebbe significato perdere il governo di questa regione. Il sistema di consenso deluchiano è infatti spaventoso. Animato da un formidabile aspetto psicologico del suo artefice: perché quest’uomo, ormai 76 anni suonati, spavaldo e arrogante, pittoresco e affascinante, è soprattutto ferocemente attaccato al potere, proprio il potere per il potere, notte e giorno, un mese, un anno dopo l’altro, sempre ricordando a memoria i nomi di tutti i suoi elettori.
Con la segretaria hanno perciò dovuto parlare con chiarezza. Elly, andiamo a sbattere. Elly, più morbida. Così Elly, alla fine, s’è seduta con don Vincenzo. E lui le ha spiegato le sue condizioni. Primo: voleva che il figlio Piero diventasse il capo dei dem campani (fatto). E poi ha preteso la certezza di poter indicare il presidente del consiglio regionale e l’assessore alla Sanità. La promessa per questi ultimi due incarichi – mentre Elly, in località Fisciano, annunciava di essere fiera «dei 10 anni di De Luca», che sembrava un fake news, e invece erano proprio parole sue – don Vincenzo la promessa l’ha ricordata a Fico in persona. Convocandolo nel suo ufficio. Ha parlato solo lui, l’anziano cacicco. Quando il suo possibile successore è uscito, ha però mormorato con disgusto: «Mai... vista... una campagna... elettorale... più triste... di questa». Poi, tanto per far capire chi è che comanda, e che comanderà ancora, ha dato una randellata al sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi (gran regista della candidatura del grillino). «Quello passa il tempo a girare per la regione, invece di fare il sindaco... ci vuole proprio una faccia di bronzo».
Adesso, però, sono tutti insieme in questo teatro. Lo sguardo scorre così sulla platea con le poltrone di velluto rosso. Laggiù c’è la coppia Bonelli&Fratoianni, mentre manca Clemente Mastella (a letto, raccontano, senza voce: ma con le truppe mastellate – «Oltre centomila voti garantiti» – accampate tra Benevento e la costa) e poi manca pure Matteo Renzi: che ha deciso di chiudere da solo, tra poche ore, con un comizio al cinema Metropolitan (ritiene ci sia tempo per farsi una foto opportunity accanto a Conte). Peccato perché sarebbe stato interessante vedere da vicino il coordinatore regionale di Italia Viva, Armando Cesaro, già capogruppo regionale di FI e figlio di Luigi, detto Giggino a’ purpetta, ex leggendario senatore forzista finito nelle inchieste per certi sospetti legami tra i suoi fratelli e alcuni clan di camorra (Giggino era uno spettacolo, a Palazzo Madama: e con il suo slang by Sant’Antimo, la sua mimica, la sua visione della politica, ci ha fatto scrivere davvero parecchio).
Fico si è lasciato piacere tutto. Era partito baldanzoso promettendo un ferreo codice etico, ma poi ha imbarcato (quasi) chiunque. Scaltro, lucido, con un tappeto persiano sullo stomaco (in effetti li commerciava, prima di aver fatto Bingo diventando il primo grillino presidente della Camera), ha subito capito che doveva affidarsi agli altri, per sperare di vincere. Così è stato trasparente. Incappando in un solo incidente: quando è stato accusato di avere prima un lussuoso gozzetto radical grillino, poi un cabinato di 10 metri, già ormeggiato (sembra) nel porto militare di Nisida, per antico privilegio parlamentare.
Qui dentro c’è aria di festa. Partono applausi. Avvistati il deputato Stefano Graziano e il senatore Sandro Ruotolo. C’è pure Riccardo Magi di +Europa. Ecco Maria Elena Boschi, in rappresentanza di Casa Riformista. Conte avanza felpato, un filo di voce, rassicurante: è chiaro che sta provando la postura del candidato premier (ha di nuovo pure la pochette). Elly finge di non accorgersene, saluta il mitico Antonio Bassolino, e si avvia verso il palco.
Però ora tutti fanno ala a don Vincenzo, nell’impazzimento di fotografi e cameraman, spinte, luci, grida di evviva, microfoni, carabinieri, altre spinte, mani che lo cercano, lo toccano, mentre lui incede, viene avanti e tutti pensiamo la stessa cosa.
E deve pensarla anche Fico. Che china, leggermente, la testa.