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 2025  novembre 20 Giovedì calendario

Dal nido del cuculo l’uomo spiccò il volo

«Tre oche in uno stormo, una volò ad est, una volò ad ovest, una volò sul nido del cuculo». È la filastrocca tormentone di Qualcuno volò sul nido del cuculo, il romanzo “psichedelico” che Ken Kesey (1935-2001) scrisse sotto effetto delle droghe che volontariamente sperimentò come test di uno studio finanziato dalla Cia sugli effetti delle sostanze psicoattive. Un romanzo quasi in presa diretta, dal “nido del cuculo”, che nello slang Usa indica il manicomio, dove Kesey volò, facendosi ricoverare nell’ospedale psichiatrico dei veterani di Menlo Park, nella Baia di San Francisco. Un testo che piacque alla prima lettura e venne divulgato dall’amico scrittore Neal Cassady che poi presentò Kesey ai sodali della Beat Generation, Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Sia Cassady che Kerouac morirono a distanza di un anno, nel 1968 il primo, nel ’69 l’autore del romanzo manifesto dei beatnik, Sulla strada, e non fecero in tempo a vedere la trasposizione cinematografica di
Qualcuno volò sul nido del cuculo: il film diretto da Miloš Forman venne proiettato in anteprima al Theatres di New York il 19 novembre del 1975 e il giorno dopo in tutte le sale. In Italia uscì il 12 marzo del 1976 con divieto ai minori di anni 14 per l’uso di “linguaggio scurrile”. Un boom al botteghino in tutto il mondo, Qualcuno volò sul nido del cuculo si piazzò al 2° posto per incassi dietro a Lo squalo di Steven Spielberg. Un capolavoro la pellicola del cineasta di origine ceca che arrivò negli Stati Uniti da orfano, Forman perse entrambi i genitori nei campi di sterminio nazisti, il padre a Buchenwald, la mamma ad Auschwitz. Germi di quella follia del genocidio si riflettevano nel trattamento disumano che in quegli anni ‘60 veniva praticato sui pazienti psichiatrici nei manicomi americani, e non solo. Un urlo più assordante di quello di Ginsberg si rivelò il romanzo di Kesey. Il libro, pubblicato nel 1962, scatenò un dibattito serrato sulla malattia mentale che nel 1971 arrivò fin sul palco di Broadway nella riduzione teatrale che ne fece il regista Dale Wasserman. Kirk Douglas rimase incantato dal personaggio del protagonista della storia, Randle Patrick McMurphy, e avrebbe voluto interpretarlo, ma si accontentò di acquistare i diritti del romanzo di Kesey. Diritti che poi ereditò con lui in vita il figlio, Michael Douglas che decise di produrre il film di Forman. Il vecchio Douglas accettò di buon grado la scelta del protagonista che cadde sul “genio ribelle” Jack Nicholson. Ha 38 anni Nicholson quando entra sul set di Qualcuno volò sul nido del cuculo, il film che gli regalerà il primo dei tre Oscar vinti in carriera (gli altri due: ancora da miglior protagonista per Qualcosa è cambiato e come miglior attore non protagonista per Voglia di tenerezza) che ne fanno un’icona vivente di Hollywood. Nello stesso anno, il ‘75 Nicholson è David Locke, protagonista di Professione: reporter di Michelangelo Antonioni, ma per Forman cambia subito registro vestendo i panni criminali di Randle Patrick McMurphy: condannato per aver fatto sesso con una quindicenne. Per lui, il sogno di una evasione tutt’altro che innocente doveva così cominciare dal ricovero nell’ospedale psichiatrico di stato di Salem. Unica via d’uscita per evitare i lavori forzati. In quella struttura, in cui Forman gira alla presenza di veri pazienti che si vedono sullo sfondo di alcune scene, Nicholson-McMurphy diventa il leader di un gruppo per lo più composto da “volontari” che avevano accettato di vivere nell’ospedale. Uomini considerati dei reietti della società americana, che si vergognava di questi spettri urbani, li ritenneva più indecorosi che pericolosi per una potenza mondiale che non poteva permettersi di mostrare il lato debole e osceno della sua popolazione. Questo è quanto denunciava già il libro di Kesey, il quale ripudiò fin dall’inizio delle riprese il film di Forman, reo, a suo dire, di non essere stato fedele alla trama del romanzo, in cui la voce narrante e il personaggio centrale è il gigantesco nativo d’America, Capo Bromden. Interpretazione memorabile quella del gigante buono, l’indiano creek Will Sampson che finge di essere sordomuto. «Li hai fregati tutti», gli dice ammirato Randle-Nicholson quando scopre che Capo Bromden parla e sente tutto ciò che è stato detto fin dal momento del suo ricovero. Parlano anche solo con gli sguardi e fanno sentire tutto il loro dolore di “uomini persi” anche i talentuosi Christopher Lloyd (interpreta il paziente Taber), al suo film d’esordio e diventato poi celebre nel ruolo di “Doc” Emmett Brown della trilogia di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis; Brad Dourif (il paziente Billy Bibit) e l’amico d’infanzia di Nicholson, Danny DeVito nei panni di Martini. Personaggi che assurgono a testimoni di un film denuncia di portata epocale in cui il detenuto McMurphy diventa il megafono della rivolta contro una società ostile che in quel momento storico scambiava ogni disagio psichico per una forma di intollerabile follia. Forman comunque nelle sue licenze registiche non tradisce il senso dell’opera di Kesey che voleva essere essenzialmente un inno alla “libertà dell’individuo”. Le sbarre alle finestre, le sperimentazioni mediche e i pesanti trattamenti farmacologici, unite alle violenze e gli abusi perpetrati e taciuti all’interno degli istituti manicomiali, erano la realtà di un Occidente in cui si era rimasti al tempo delle navi dei folli. Il clamore attorno al film di Forman (vincitore di 5 Oscar) riaccese il dibattito su scala planetaria. Da noi, nel 1978 la “180”, meglio nota come Legge Basaglia portò alla chiusura dei manicomi, aprendo le porte a una nuova era in cui l’assistenza territoriale e l’inclusione sociale sbarrava il passo alla segregazione delle persone affette da patologie mentali. «Da vicino nessuno è normale» ha ripetuto fino alla fine Franco Basaglia (19241980) che, nel 1961, al suo primo giorno di servizio da direttore del manicomio di Gorizia, alla richiesta di firmare il benestare dell’elenco degli internati che la notte precedente erano stati legati al letto oppose il suo inderogabile «E mi no firmo». Quel grande “no” pronunciato in veneziano, idealmente arrivò a Randle, l’uomo in rivolta contro un sistema insensibile alla richiesta di aiuto delle persone più fragili, marchiate a vita come matti e quindi “scarti sociali”. Prima che il suo cervello venisse fulminato dall’elettroshock, Randle-Nicholson ricorda ai suoi compagni: «voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada». E quel messaggio, cinquant’anni dopo continua a correre per il mondo, come nell’ultima scena del film: il grande Capo Bromden evade dall’ospedale e corre per sempre, sulle ali della libertà.