Corriere della Sera, 20 novembre 2025
Biografia di Cesare Maestri, raccontata dal figlio Gian Maestri
Il Trentino aveva altro per la testa, quattro anni e mezzo fa, quando se ne andò il suo figlio più illustre.
Cesare Maestri morì all’ospedale di Tione il 19 gennaio 2021, durante il Covid, proprio nel mezzo della seconda ondata. Ricordate? Le zone rosse. Il Natale in lockdown. Quel giorno il bollettino annunciò 254 mila tamponi, 10.497 nuovi contagi e altri 603 morti. L’Italia non riusciva a farsi dare abbastanza vaccini dalla Pfizer. A Roma il senatore Renzi orchestrava la caduta del governo Pd – 5 Stelle. Sembra davvero una vita fa.
«Al funerale furono ammesse solo 50 persone per evitare assembramenti. Ho dovuto scegliere io i nomi, qualcuno si è pure offeso…» ricorda il figlio. «“Mai mollare” diceva. Ma alla fine era veramente stanco. Prese la polmonite. Il test anti-Covid risultò negativo, lo misero in corsia normale, nella stanza accanto a quella dove era morta la mamma. Ricordo che andavo a trovarlo tutto bardato, con la mascherina, in testa una cuffia tipo doccia: si vedevano solo gli occhi. Io gli mostravo le foto delle mie nipotine. Lui ormai non parlava più. E in quei momenti è cambiato il rapporto padre-figlio. Ho conosciuto un papà diverso, senza difese. Prima non aveva mai mostrato la debolezza. Lì si è lasciato andare». Gian Maestri rimane un momento in silenzio. «Sa, a mio padre piaceva essere un personaggio…».
Non si diventa «il Ragno delle Dolomiti», del resto, senza crederci almeno un po’. Circa 3.500 pareti in tutto il mondo, di cui un terzo in solitaria. Già da ragazzino, a Trento, si arrampicava sui lampioni per rubare le lampadine, con il risultato che casa Maestri era illuminata con bulbi da 200 volt. A 21 anni scalò la via Detassis, V grado, sulla Paganella, da solo, in appena 2 ore 30. A 25 rischiò di morire sul Campanil Basso di Brenta, lui e Luciano Eccher rimasero tredici ore sospesi nel vuoto, poi dettero una medaglia a entrambi, a Luciano per aver detto: «Cesare, taglia la corda, che almeno tu ti salvi», a Cesare per aver risposto: «No Luciano, la corda non la taglio». Entro i 30 anni s’era fatto il Croz dell’Altissimo, il Salame del Sassolungo, la cima d’Ambiez, il monte Civetta, il Cervino, il Sass dla Luesa… e manca lo spazio per elencarli tutti.
Figlio di una famiglia di attori itineranti, con il babbo irredentista e la mamma che lo lasciò orfano all’età di sei anni, Cesare crebbe anarchico, guascone, spavaldo, provocatore. In guerra fu staffetta partigiana, rubava gli esplosivi ai nazisti. Per tenersi in forma, diceva, «faccio l’amore e le flessioni contemporaneamente». Nel 1954 non lo vollero sul K2 perché troppo di sinistra. Nel 2002, dopo l’11 settembre e la guerra in Afghanistan, alla veneranda età di 73 anni, si mise in testa, di sventolare la bandiera della pace sullo Shisha Pangma, 8.027 metri, e dovettero portarlo giù a dorso di yak. «Ma ormai l’avevo detto, mica potevo tirarmi indietro». La moglie non la prese bene.
Gianluigi, per tutti Gian, classe ‘54, è figlio di Fernanda Maestri, Cesare lo amò come se fosse figlio proprio. È lui, oggi, a portare avanti i due negozi, La Bottega e Le Cose Buone di Cesare Maestri, a Madonna di Campiglio. Quando parla dice «il Cesare», con l’articolo, alla trentina, ma anche, semplicemente, «papà». «Papà negli ultimi anni si era fermato», racconta. «Le gambe non funzionavano più. Lui se la prendeva con il girello. Ho dovuto cambiargli le rotelle 2-3 volte».
Gian, mi racconta come si sono conosciuti i suoi genitori?
«Papà s’è rotto le ossa 17 volte, ma mai in montagna. Quella volta era andato a sciare in Bondone, ricoverato al Santa Chiara con una gamba ingessata. Già si conoscevano di vista. Ma fu un’amica in comune a dire: “Fernanda, andiamo a trovare il Cesare”. Si sono messi insieme prima che io compissi 6 anni. Poi si sono anche sposati, quando ne avevo 17. Ah, era la donna più bella di Trento, mia mamma. Fu fondamentale per la nostra famiglia. Anche perché il Cesare, con quella vita, dal punto di vista economico…»
Lui era nato poverissimo, ai Casoni.
«Erano spiazaroi, ai Casoni. Monelli. Ai Casoni o avevi una dote particolare o finivi delinquente. Luciano Eccher diventò fotografo. Claudio Baldessari, alpino. Lui lo diceva alla mamma: “Se non avessi trovato voi, sarei finito sotto un ponte…».
È vero che una volta, bambino, giocava a fare il paracadutista e si lanciò da una finestra con un ombrello?
«Ne facevano di tutti i colori. Anche quando arrampicavano insieme, all’inizio, erano compagnie di tipo goliardico. Oggi quello spirito non c’è più. Oddio… lui poi voleva sempre primeggiare, eh. Sempre. Qualunque cosa facesse. Un atleta alla ricerca del primato. Ha presente Sinner? Una pasta del genere».
Non aveva paura di morire?
«Per lui scalare era realizzare sé stesso. Ma il rischio era sempre entro certi limiti. Il suo motto era “L’alpinista migliore è quello che diventa vecchio”».
In lui però c’era anche qualcosa di istrionico, no? La sua era una famiglia di attori…
«Ce l’aveva nel sangue. Amava finire sui giornali. Girare a Trento con lui era come girare con il Papa. Da piazza Fiera a piazza Duomo impiegavamo venti minuti, perché tutti si fermavano a salutarlo. Però amava anche la polemica. Anzi, cercava la polemica: per questo a chi non lo conosceva poteva anche stare sulle scatole…».
I puristi non lo sopportavano.
«Ma perché lui era un visionario. Nel 1970, alla base del Torre, per stare più comodo si portò una casetta prefabbricata…»
E veniamo al Torre, visto che Gian l’ha menzionato. È il 1958, e le Dolomiti, a Maestri, cominciano a stare strette. Punta al Cerro Torre, Patagonia, 3128 metri ancora inviolati. Lui e Toni Egger tentano l’impresa. Dopo sei giorni, Cesarino Fava, che li attendeva al campo base, vede un puntino nero nella neve. È Maestri, più morto che vivo, la barba incrostata di ghiaccio, ripete solo «Toni, Toni, Toni…». Quando si riprende racconta che sono arrivati in cima, poi una valanga li ha colpiti durante la discesa. Si grida al miracolo. Maestri è famosissimo. Poi, nel 1968, una spedizione inglese fallisce al Torre fallisce, e si insinuano dubbi. «Maestri mente». «Non ci sono prove». Messner sentenzia: «Impossibile». Cesare, travolto dalle polemiche, nel 1970 torna in Patagonia, scala la montagna perforando il granito con chiodi a compressione. Lascia il compressore, 120 chili, appeso in cima, in segno di sberleffo. Ma le polemiche non si placano. È una maledizione. «La cosa ci ha segnati. Lui si svegliava con gli incubi nel cuore della notte. Diceva: “Quella montagna, la farei sparire”»
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In famiglia non avete mai avuto il dubbio che avesse mentito nel 1959?
«No. Quello, l’abbiamo sempre dato per scontato. Ma siamo stati male. Lui ci chiedeva scusa. “Scusa, se vi ho trascinati in tutto questo”».
Lei era giovane. Le hanno mai detto “Tuo papà è un bugiardo”?
«Apertamente, no. Ma sa, per le per vie traverse…»
Messner ha detto: «Se vuoi dimostrare di essere già salito, devi scegliere la stessa strada».
«Messner sta lì a pontificare… Ma papà era un uomo pratico. Se tenti una salita e ti muore qualcuno, che fai, ci riprovi? Un altro suo motto era: “Matto sì, mona no”».
Lo hanno molto criticato per il compressore…
«Oggi si usano sparachiodi a aria compressa da un chilo. Quello ne pesava centoventi… Il tempo e la fatica risparmiati nel piantare i chiodi, li ha persi tirandolo su. È stato calcolato che se avesse piantato i chiodi a mano ci avrebbe impiegato di meno. La verità è che il compressore era della AtlasCopco, produttrice di compressori, che pagava la spedizione. Si sono fatti una promozione incredibile. Non poteva non usarlo»
Nel 2012 un americano e un canadese rimossero tutti i chiodi per ragioni di rispetto dell’ambiente…
«Mio padre la prese male. “Ladri”. “Imbecilli”. Gli abitanti di Chaltén, la città ai piedi del Torre, glieli hanno requisiti, quei chiodi, ora sono nel museo della montagna. Volevano buttare giù anche il compressore. Ma è ancora lassù, attaccato con le corde. È parte della storia, e non si cancella la storia».
Cesare oggi riposa al cimitero di Campiglio, a fianco alla sua Fernanda. Il giorno del funerale, laico, 50 persone con la mascherina ad assistere, una fitta nevicata coprì il paese.
Qualche tempo dopo, parlando a un giornalista, Gian volle ricordare un episodio del 1970. Una conferenza a Barcellona, nel teatro più importante della città. Cesare aveva parlato come poteva, nel suo spagnolo improvvisato. La platea ascoltò in silenzio. Poi tutti si alzarono in piedi e cominciarono a sventolare dei fazzoletti bianchi. L’omaggio reso in Spagna ai più grandi tra i toreri.