il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2025
“Era come Leonardo” De André
Pubblichiamo una parte dell’intervista a Cristiano De André, inserita all’interno del nuovo libro di Andrea Scanzi dedicato a Fabrizio De André. Da oggi in libreria.
Ormai vivi in Sardegna…
Sì, a Portobello di Gallura, nella prima casa di mio padre. E ci sto bene. Ho venduto a Milano. Per me l’idea di città è insostenibile. Non riesco più a concepirla quella vita lì: è un insieme di tutto ciò che non mi piace di questo nostro presente. (…).
Chissà cosa scriverebbe tuo padre.
Per “fortuna” è morto prima di dover accettare una situazione tale. Dopo tutto quello che ha scritto, detto, sperato e sognato, ripiombare in una realtà come questa sarebbe stato devastante. Già era depresso di suo, perché aveva scritto tanto contro la guerra e poi non era successo nulla. Si è sempre schierato in favore dei deboli, e il mondo non gli è mai andato dietro. Continuava a ripetere che non era servito a nulla creare tutto quello che aveva creato: La guerra di Piero, Andrea, Sidun (…).
Una volta mi hai raccontato la storia del “lago che si svuotò”…
Aveva preso l’Agnata nel 1975, una tenuta non distante da Tempio Pausania, sempre in Sardegna. Voleva creare un lago artificiale vicino la casa. C’è andato avanti tre anni. Partiva per Cagliari (5 ore di auto, ndr) con la sua Citroen 2 Cavalli per andare a chiedere i permessi. Ma continuavano a rimbalzarlo e a dirgli che non era possibile, perché in Sardegna non c’è acqua. Tornava indietro incazzato (…). Alla fine gli hanno detto di sì, per disperazione (..) Era così felice che quando il lago fu ultimato fece una festa con un sacco di gente. Poi, al mattino, sentimmo un bestemmia che ci svegliò. Era lui: se ne stava davanti al lago a sacramentare, perché nella notte si era svuotato tutto. Lo avevano “chiuso” male. (…)
Hai trovato molti fratelli maggiori nei collaboratori di tuo padre.
New Trolls, Pfm, Pagani, Bubola. E Finardi. Nel 1975, come sai, apriva i concerti di mio padre. Litigavano ferocemente: Eugenio compagno convinto, Fabrizio anarchico. Una volta Eugenio mi disse: “Smettila di stare con quel borghese di merda di tuo padre, lui e il suo whisky. Vieni da me!”. Solo che anche Eugenio beveva whisky (…).
Stare accanto a tuo padre non è stato sempre facile.
Era inevitabile. Aveva alti e bassi per colpa dell’alcolismo. Quando ha lasciato mia madre, ha abitato per un bel po’ all’hotel Cavour di Milano con Dori. Lo vedevo a malapena una volta a settimana, mi ci portava mia nonna. Dagli 11 ai 19 anni mi sono sentito abbandonato e ci siamo scazzati spesso, poi mi ha riaccolto e chiesto scusa.
A fine Settanta, con tuo padre, ti trovasti in mezzo a una sparatoria.
Pieni anni di piombo. Uscimmo da un cinema di San Babila e cominciarono a volare proietti. Vidi uno con il passamontagna, dietro un angolo, che sparava a un altro che non riuscivo a scorgere. Io e mio padre scappammo di corsa.
Nella casa di Portobello si ritrovavano un sacco di artisti…
Metà dei Settanta. Anzitutto Villaggio: qualche battuta di Fantozzi è nata lì. Poi Elio Petri e sua moglie Paola. Franco Solinas, lo sceneggiatore di La battaglia di Algeri. Marco Ferreri. Walter Chiari e Ugo Tognazzi. (…). Ogni volta poi celebravano un rito. A casa mia ci sei stato: lo ricordi quella specie di palchetto?
Certo…
Ecco: ognuno di loro aveva un quarto d’ora a disposizione per fare il suo show. Salivano su quel palchetto e partiva lo spettacolo. (…).
Tuo padre scoprì la malattia per “colpa” di un tuo massaggio.
Estate 1998. Da un po’ aveva dolore fisso alla schiena. Muoveva in continuazione la spalla sinistra, la girava e cercava conforto. In quel periodo studiavo chiropratica (…) Gli feci una manovra per liberare la schiena, ti giuro molto delicatamente. Ma – non so come – gli ruppi una costola. Lui sentì un male terribile e così si fece visitare. (…). Il dolore peggiorò. Si fece tutti i controlli del caso. E scoprirono quello che aveva.
Lui non te lo volle dire.
Non volle rivelarlo a nessuno. Al telefono mi diceva che aveva delle ernie e anzi mi ringraziava perché lo avevo messo nelle condizioni di scoprirle. Alla fine andai solo all’Humanitas e chiesi di parlare con i dottori che lo curavano. Quando mi videro sbiancarono. Mi dissero: “Suo padre non ha più di quattro mesi di vita. Ha metastasi al cervello, alle ossa, al fegato, ai polmoni, ovunque”. Ho cominciato a urlare, disperato.
Posso solo immaginare.
(…) Si incazzò come una iena, perché non voleva che io sapessi. Non mi volle vedere fino a che non ci fu il momento finale, quando ebbe la crisi. Gli diedero la morfina e solo allora lo incontrai, per la prima volta, dopo tutto il calvario che aveva passato per quattro mesi. (…) Passai quel momento come uno dei peggiori della mia vita (…)
Cosa ti manca di più di lui?
Mi manca come padre, fisicamente. E poi quella immensa umanità, quella enorme speranza nel prossimo. Credeva che l’uomo potesse arrivare ad autogestirsi, che potesse riuscire a trovare un accordo con gli altri. Mio padre era convinto di cambiare il mondo (…). Mio padre è come Leonardo, lo studieranno nei secoli.