La Stampa, 20 novembre 2025
Intervista a Susanna Egri
Susanna Egri, a 99 anni, dopo una vita così piena passata a danzare e insegnare la danza, qual è il ricordo più forte che le salta al cuore?
«La sciagura di Superga. Il giorno in cui ho perso mio padre. Credevo di non poter sopravvivere, anche se ero già scampata a tantissime vicende tremende, perché sulla mia pelle sono passati i totalitarismi del ventesimo secolo. Ma io non avevo mai avuto paura fino a quel giorno. Perché con me c’era mio padre».
Chi era per lei Ern? Egri Erbstein, l’allenatore del Grande Torino, la squadra italiana più forte di tutti i tempi?
«Un uomo eccezionale, straordinario. Come tecnico e come padre. Non mi poteva succedere niente di irreparabile se c’era lui».
Lei aveva 23 anni. Cosa ricorda di quei giorni?
«Ricordo tutto. Con mamma, avevamo accompagnato mio padre alla partita di Milano. Eccezionalmente giocavano al sabato, per permettere il viaggio in aereo verso Lisbona. Abbiamo cenato insieme con tutta la squadra al Touring Hotel, c’era Valentino Mazzola al nostro tavolo. Rivedo mio padre nel parcheggio che mi fa segno con la mano: arrivederci».
Quando ha saputo?
«A quel tempo ero già prima ballerina a Firenze. Ma nel maggio del 1949 avevamo un periodo di pausa. Quindi mi trovavo a Torino e stavo partendo per Parigi, dove mi era arrivata una proposta di lavoro molto importante. Ho aspettato il ritorno di mio padre fino all’ultimo, poi ho detto a mamma: “Scusami con il babbo"».
Che ora era?
«Il mio treno partiva alle sette di sera. Ero già seduta nello scompartimento, la valigia piazzata. Ho sentito due donne parlare in corridoio: “È caduto l’aereo del Toro. Sono morti tutti”. Ho fatto un balzo: “Cosa dite? Cosa è successo?”. È arrivata un’amica di famiglia, Eva Herbert, per tirarmi giù».
È salita a Superga?
«Sì. Lasciavano avvicinare i parenti. Nella coda integra dell’aereo c’era la valigia che avevo prestato a mio padre. Era intatta, persino il dopobarba era nella sua boccetta. E dentro a quella valigia c’era una bambolina, una bambina in abiti folcloristici portoghesi. Era incartata, perfetta: il regalo postumo di mio padre. Da quel giorno non ho mai fatto neanche una conferenza stampa senza portarla con me».
Prima di Superga, le ha conosciuto le leggi razziali. Come le ha scoperte?
«È stata la prima mazzata terribile della mia vita. Io sono nata a Budapest, ma sono arrivata in Italia quando ero in fasce. Mio padre era un giocatore di calcio, viaggiavamo sempre. Io chiamavo la mia famiglia la nostra noce. Eravamo noi quattro: mio padre, mia madre, mia sorella e io. Questa era la famiglia. Non sapevo niente degli zii e dei nonni».
Che origini avevano?
«Mia madre cattolica, mio padre ebraica. Ma i miei genitori non erano dottrinali, non frequentavano chiese o sinagoghe. Insegnavano la libertà e l’apertura mentale. Questo per dire che, quando furono promulgate le leggi razziali e io venni cacciata da tutte le scuole italiane, per me fu letteralmente incomprensibile. Ero l’orgoglio del liceo Machiavelli di Lucca, avevo 12 anni. È stato qualcosa che mi ha fatto perdere completamente l’identità. Dicevano che io stavo inquinando “la sana stirpe italica”. È stato crudele, assurdo, ingiusto. Era impossibile trovare un senso. Ho pensato: se questo è il mondo degli adulti, io non ci voglio entrare».
Prima riparaste verso la frontiera olandese, quindi siete stati costretti a fuggire in Ungheria. Come siete tornati a Torino?
«Mio padre era stato bravissimo a tenere il legame con la città. Pur di non perdere la possibilità di allenare il Toro, aveva accettato un impiego come rappresentante nel tessile. Non aveva mai fatto il commerciante. Ma così restava a contatto con la squadra. Ho capito che l’evoluzione darwiniana non è la prevalenza del più forte, ma di quello più capace di adattarsi alle circostanze. È questa l’intelligenza».
L’anno dopo la sciagura di Superga lei comparve sulle prime televisioni italiane. Come e perché?
«Io danzavo, facevo coreografie. E la Rai è nata a Torino. La vita è tutta una questione di incroci».
Dove erano piazzate le televisioni?
«Erano due in tutto, entrambe in via Roma. La gente formava capannelli. Io ballavo per insegnare ai cameraman come seguire i movimenti. Gli spettatori dicevano: “Lei sta ballando adesso, ma non è qui. Questa è una tele-visione"».
All’opposto della sciagura di Superga cosa c’è?
«Il giorno in cui il presidente Luigi Einaudi venne negli studi Rai a vedere il mio primo balletto sperimentale».
Com’era il dopoguerra?
«Era il Grande Torino. Per la sua capacità di essere una squadra. Per la sua capacità di rinascere dal disastro. Insegnava che potevi farcela».
La sua scuola di danza nasce nel 1950. Come furono gli inizi?
«Molto difficili. Non entrava nessuno. Per due ragioni. Io pensavo già alla danza per il teatro, era qualcosa di troppo moderno. E poi la mia scuola accoglieva anche i maschi, cosa inusitata per quei tempi».
Come ne venne a capo?
«Insegnavo danza alla bimba di Loik e alla bimba di Grezar, due giocatori del Toro morti a Superga, naturalmente gratis. Ma così facevo vedere che la scuola era aperta. E poi, finalmente, qualcuno entrò».
Cosa ha imparato dalla danza?
«La danza è l’alfabetizzazione del corpo. Tutti quelli che fanno danza, anche se non saliranno mai su un palcoscenico, imparano qualcosa che gli servirà per tutta la vita, che diventino medici, scrittori o qualsiasi altra cosa».
Lei come fa a 99 anni a essere così in forma?
«Forse una ragione è la moderazione nello stile di vita. Di sicuro è togliersi dall’odio, andare via sempre dal veleno del risentimento».
Sta per compiere cento anni. È quasi pronto un documentario sulla sua vita. Ha nostalgie?
«Nessuna. Faccio quello che amo. Sogno il futuro. Il corpo è il mio strumento di lavoro e senza il corpo io non ci sarò più, ma ci saranno i miei allievi».
Cosa hanno in comune la danza e il calcio?
«Il gioco. Si parte sempre dal gioco, almeno così dovrebbe essere. E i giochi hanno delle regole. Le regole vanno rispettate. Una delle regole fondamentali è il rispetto per gli altri. Quando il Toro vinse 10 a 0 con l’Alessandria, mio padre riprese i suoi giocatori: “Non bisogna umiliare l’avversario, basta sconfiggerlo”. Queste sono parole sante».