la Repubblica, 20 novembre 2025
Intervista ad Abel Ferrara
Piazza Vittorio. Il sole sbuca tra le colonne scure e attraversa la vetrina del locale, il Brick. Sul bancone troneggia il memoir di Abel Ferrara, Scene, in libreria dal 21 novembre con La nave di Teseo. I giovani ristoratori cinesi sorridono, il regista scherza con due bambine bionde: una è Anna, sua figlia, accanto a lui la moglie Cristina. “Deve venire a vederlo quando suona il blues, con la chitarra, insieme a Edoardo Pesce e ad altri amici”, dice lei orgogliosa. La scena è tutt’altra rispetto a quella di Scene: duecentocinquanta pagine di autobiografia, un flusso ruvido e frammentato scritto con la stessa furia con cui Ferrara ha vissuto. Notti di cocaina ed eroina e crack, arresti e manette, alberghi devastati, set estremi, fughe da Hollywood e ricadute infinite. Tra bestemmie, visioni e lampi di tenerezza, Ferrara attraversa quarant’anni di autodistruzione e di cinema popolati da fantasmi e compagni di viaggio: Chris Penn e suo fratello Sean, Willem Dafoe e Christopher Walken, Asia Argento e Madonna, le donne amate e perdute, il dolore di una dipendenza che lo ha inseguito per decenni. Ma nel racconto affiora anche la pace trovata in Italia, tra Napoli e Caserta, dove ha smesso di drogarsi e ha riscoperto la fede. Oggi, sobrio e lucido, guarda a quel caos con la distanza di chi è sopravvissuto e non cerca assoluzioni, ma verità.
Lei è in gran forma, specie considerando le montagne russe che sono state la sua vita.
«Guardi, non è che io sia così forte. La differenza arriva quando uno smette di avvelenarsi da solo ogni giorno. Ho ereditato buoni geni: mio nonno, lato italiano, è vissuto fino a 96 anni. Veniva da Sarno, nel Sud, e portò in America la sua cultura. Il modo di vivere, di mangiare, il non bere in eccesso, la pasta fatta ogni giorno… e visse fino a 96 anni. Quando smetti di avvelenarti quotidianamente ti dai una possibilità di essere vivo e in salute. Certo, serve anche fortuna».
L’idea del libro è nata da Elisabetta Sgarbi, ma scrivere certi episodi – le fughe, i set al limite, i fantasmi di chi non c’è più – è stato anche un modo per rimettere ordine nel caos.
«Mettere tutto per iscritto è una rivelazione. Anche se usi un computer, è un processo completamente diverso. Ho cominciato dal ricordo più potente, i momenti che avevo ancora chiari dopo cinquant’anni, come se fossero accaduti ieri. Il mio obiettivo era dare loro chiarezza attraverso il linguaggio. Io lavoro con immagini, suono, musica, attori, ma qui dovevo affrontare me stesso, cercare la verità dei miei ricordi. Scrivere serve a vedere le cose con lucidità. Viviamo nel presente, ma il passato è sempre con noi».
Nel libro dedica pagine intense a suo padre, un allibratore del Bronx: racconta i poliziotti che si toglievano le scarpe per non farsi sentire quando venivano a riscuotere, la madre che piangeva in cucina, la Pontiac distrutta dagli strozzini e il suo tentativo di suicidio con barbiturici e whiskey, sventato solo per caso. Quanto di quel mondo è finito nel suo modo di raccontare la colpa e la redenzione?
«Volevo parlarne perché è un rapporto fondamentale. Avevo amore e sostegno, e questo ha contato moltissimo anche per l’artista che sono. Vengo da una grande famiglia del Sud Italia. Quella è la mia fonte. Lo stile del Sud è operistico, tutto è drammatico, diretto. A casa mia non esisteva la repressione: tutto era sul tavolo, sentimenti, parole, discussioni. Quando poi sono uscito nel mondo, ho incontrato persone che non mostravano nulla, che trattenevano tutto, che parlavano a bassa voce… per me era qualcosa di alieno. Non ho mai conosciuto odio o freddezza in famiglia: ho sempre sentito amore puro, e questo mi ha formato. È il dono della mia cultura».
Tra i compagni di viaggio che rievoca c’è Chris Penn, e attraverso di lui anche il fratello Sean. In “Scene” descrive il set di “The funeral” come un campo di battaglia creativo, con Chris che cercava la verità della scena fino a spingersi oltre, e lei che non lo fermava mai. Che cosa significava lavorare con quella intensità?
“Spesso mi chiedo: perché io? Perché sono sopravvissuto, mentre altri no. Anche io ero intenzionato a distruggermi come alcuni di loro. Ma ho avuto fortuna: non mi sono ammalato, non mi hanno sparato, non ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Loro vivono ancora nei miei film. Chris Penn sarà sempre giovane e potente in The funeral. È la bellezza dell’arte: li tiene vivi. Ma il rimpianto grande è che la soluzione era lì e non la vedevo. Mi ci sono voluti sessantun anni per diventare sobrio, per capire che droghe e alcol non erano un elisir, ma un’illusione».
Nel libro c’è anche un episodio con Christopher Walken: una sceneggiatrice tossica che allevava topi e li faceva scorrere sul pavimento, mentre lui rimaneva imperturbabile, vestito di nero. Cosa rappresenta per lei Walken, dopo tanti film insieme?
«È stato il primo vero attore-star con cui abbiamo lavorato più volte. È brillante, generoso, pieno di conoscenza. Attori come lui sono maestri: ti insegnano cos’è davvero recitare, come si costruisce una scena, come si tiene il silenzio. Non ho mai lavorato tanto sui set altrui, quindi da persone così ho imparato tutto. Chris è uno che condivide la sua esperienza, la mette al servizio degli altri. È raro».
E Gérard Depardieu: scrive che “Welcome to New York” nacque una notte a Chinatown davanti alla tv, e che a Parigi giraste senza sceneggiatura, tra improvvisazioni e vino rosso. Diceva “io sono lui, Abel”?
«Eravamo amici. È stato lui a voler interpretare Strauss-Kahn, e grazie a lui il film ha potuto esistere. Un attore come lui porta con sé talento, esperienza, ma anche una parte del budget: ha creduto nel progetto e ha dato una performance enorme. Avrei voluto lavorarci ancora, poi la vita prende altre direzioni».
Asia Argento occupa uno spazio centrale nel libro e nella sua vita: le fughe, gli hotel devastati, le notti di passione e di paura. Anche una profonda comprensione reciproca. Che cosa la lega a lei ancora oggi?
«Le donne hanno contato moltissimo, come artiste e come esseri umani. Asia e io abbiamo lavorato insieme quattro volte: è una bomba, una forza autentica. È anche regista, scrittrice, un talento totale. Ogni volta che entra in scena capisco perché esistono i film. È sobria anche lei, e questo ci lega ancora di più: ci capiamo, abbiamo lo stesso linguaggio. Con lei non serve dirigere troppo, bisogna ascoltarla. Porta verità, pericolo, istinto puro. Ora faremo American nails, ispirato al mito di Fedra, ambientato a Bari, con Riccardo Scamarcio. Giriamo subito dopo Capodanno. Fedra è desiderio, colpa, redenzione: materiale vivo, e Asia sa portarlo in vita».
E Madonna? In “Scene” ricorda tensioni ma anche momenti di grande fiducia reciproca durante la lavorazione di “Occhi di serpente”. Scrive che fu tra le prime a sostenerla concretamente quando il sistema la stava isolando. Che tipo di rapporto è rimasto?
«È stato un film intenso, difficile ma vero. Madonna è fortissima, presente, precisa. Lo abbiamo prodotto e le tensioni c’erano, ma erano legate al lavoro. Si discuteva, ci si scontrava, il giorno dopo si girava la scena. È così che si fanno i film. Non mi interessa entrare nei gossip o nelle “bullshit stories”, come dico nel libro. Dopo trent’anni, ciò che resta è il film, e il film è buono, lei è grande nel film. Quello conta».
Harvey Keitel è una presenza costante: nel libro si percepisce la sua disciplina, il modo in cui sul set insegnava anche ai più giovani. Che cosa le ha lasciato come lezione umana?
«Harvey porta conoscenza, disciplina, un senso altissimo della recitazione. È un grande attore, ma soprattutto un maestro. Sa insegnare, sa dare. È sempre al servizio del film, di tutti. Guardi Il cattivo tenente o Occhi di serpente: è la stessa sorgente di empatia, la stessa intensità. Harvey ti mostra cos’è davvero la verità davanti alla macchina da presa e quanto costa raggiungerla».
Nel libro racconta che perse la regia di “Carlito’s Way”, per colpa di una bottiglia di vino: era all’Hotel du Cap di Antibes, si mise sotto la giacca una bottiglia di vino di uno dei produttori. Aveva immaginato un film fedele al romanzo, ambientato nel 1975, con Al Pacino e Harvey Keitel. È per questo che quella storia le è rimasta addosso, come un’occasione mancata?
«È un esempio di come Hollywood può distruggere il potenziale di un film. Hanno tutti i mezzi, i soldi, gli attori, eppure spesso le procedure schiacciano la verità. Nella cosiddetta età d’oro c’erano i più grandi scrittori e registi, e quanti film mediocri ne sono usciti? Carlito’s Way aveva un materiale di partenza ispirato, ma lo studio lo ha snaturato. È solo un caso tra tanti. Anche io ne ho vissuti di simili».
Che Hollywood vede oggi, da lontano e da sopravvissuto?
«Io lavoro qui, non lì. Ma il mondo del cinema è cambiato: la tecnologia ha rivoluzionato tutto. Negli anni 90, quando arrivò il digitale, io ero già a favore e lo sono ancora. Oggi chiunque può girare un film, anche con un telefono, e la qualità è quella di un film da cento milioni di dollari. Non creda ai gadget o al 3D: il cinema è sempre lì, nell’occhio e nel racconto. Internet ti dà anche la possibilità di parlare al mondo intero senza passare da nessuno. È un dono. L’intelligenza artificiale? Non lo so. Non vivo nella paura, vedremo».
C’è qualcosa che la spaventa?
«Mark Twain diceva: le peggiori cose della mia vita non sono mai accadute. E aveva ragione. Vivo il presente. Posso temere un bus che sfonda la finestra proprio ora, ma non ha senso vivere nella paranoia. Sono arrivato fin qui: voglio godermi questo momento».
Che ruolo ha oggi il Buddismo nella sua vita, dopo la fede ritrovata in Italia e le comunità di Caserta?
«È una ricerca costante di connessione spirituale. Sono nato cattolico, credo in Gesù Cristo, e so che il Discorso della montagna è quasi un testo buddista. I miei maestri buddhisti hanno dormito nei conventi francescani: c’è una fratellanza. Il Buddhismo mi ha insegnato il servizio, la connessione, l’abbandono dell’ego. Un tossico è l’essere più egocentrico che ci sia: si isola dal mondo. Il Buddismo ti ricorda che non siamo sulla terra per soffrire. Se stai soffrendo per qualcosa che crei tu, stai guardando la vita in modo distorto. La sofferenza esiste, certo, ma non è la condizione naturale dell’uomo. E questo l’ho capito qui, in Italia».
Vuole aggiungere qualcosa?
«Solo questo: la verità è un lavoro quotidiano. Che sia un film, un libro o una conversazione. L’obiettivo è togliere la nebbia e restare nel reale, senza paura».