la Repubblica, 20 novembre 2025
La morte di Franco e la lezione da ricordare cinquanta anni dopo
Morto Franco, non finì la rabbia. Quarant’anni sono un’eternità: il 20 novembre 1975 molti spagnoli avevano conosciuto solo il franchismo e quasi consideravano quel tetro regime di furfanti, zoticoni e bigotti, non tanto una dittatura quanto lo stato naturale delle cose. Questo spiega che il sentimento più diffuso in Spagna, il giorno della morte di Franco, non fosse né di gioia né di tristezza; il sentimento più diffuso era l’incertezza, lo smarrimento, l’inquietudine. Nessuno lo colse meglio di Julio Cerón, quello strano diplomatico che alla fine degli anni Cinquanta fondò il Flp (Fronte di Liberazione Popolare) e pagò con tre anni e rotti di carcere la sua audacia antifranchista. «Quando Franco morì ci fu grande disorientamento», disse. «Non c’era l’abitudine».
C’è chi pensa che la democrazia fosse inevitabile in Spagna dopo la morte di Franco; sorprendentemente, lo pensano persino alcuni protagonisti di quel periodo. È un’illusione teleologica. La democrazia non è un dono ma una conquista, quindi non è mai inevitabile, e tanto meno in quella Spagna improvvisamente senza Franco; infatti alcuni politologi di rilievo, come Giovanni Sartori, pensavano allora che noi spagnoli non fossimo pronti per la democrazia. Lo slogan celebrativo del nostro Governo – “Spagna in libertà. 50 anni” – comporta una falsità flagrante. La morte di Franco non rappresentò la fine del franchismo e neppure l’inizio della democrazia. Il franchismo era robusto alla morte di Franco, sebbene non abbastanza da imporsi all’antifranchismo; l’antifranchismo era robusto alla morte di Franco, sebbene non abbastanza da imporsi al franchismo. Da quell’equilibrio di impotenza nacque in Spagna la democrazia.
Ma non nacque subito. Ciò che portò la morte di Franco non fu la libertà: fu l’avvio di una serie di movimenti politici e sociali che col tempo sarebbe stata conosciuta come Transizione, e che finì per comportare il passaggio da una dittatura a una democrazia. Quel periodo storico è diventato politicamente controverso, non perché i nostri politici abbiano un reale interesse per la storia, ma perché anche il politico più ottuso sa che, per controllare il presente e il futuro, deve prima controllare il passato. Questa elementare saggezza orwelliana è la responsabile del fatto che, da quando a metà dello scorso decennio si disintegrò o sembrò disintegrarsi il sistema di partiti generato dalla Transizione, essa sia entrata nel campo della battaglia politica: i nuovi partiti avevano bisogno di imporre una versione del passato utile ai loro interessi, manipolandolo o falsificandolo secondo le convenienze al fine di delegittimare i propri avversari, che consideravano giustamente esserne responsabili. Il risultato fu l’emersione nel dibattito pubblico di un racconto duale e contraddittorio della Transizione, che fino ad allora era rimasto sotterraneo, in germe.
Risultato di quel risultato: oggi esiste una versione rosa e una versione nera della Transizione. La versione rosa, sostenuta dalla destra e da molti protagonisti dell’epoca ansiosi di rivendicare la propria condotta, sostiene che la Transizione fu un periodo di concordia senza crepe tra alcune élite esemplari, la cui inflessibile saggezza e il cui senso storico favorirono un passaggio pacifico dalla dittatura alla democrazia; sostenuta dall’estrema sinistra e dai secessionisti, la versione nera afferma che la Transizione fu un ignominioso lavacro grazie al quale il Regime per antonomasia – il franchismo – si trasmutò nel Regime del ’78, che in fondo non è una democrazia autentica ma una falsa democrazia: il franchismo con altri mezzi.
Non so se sia necessario aggiungere che entrambe le versioni sono false. La verità è che, come mostrano tutti gli indici di qualità democratica del mondo, la Transizione diede vita a una democrazia reale, peggiore di alcune e migliore di molte, imperfetta come tutte; diede vita anche – questa non è un’opinione, è un fatto – ai migliori cinquant’anni della Spagna moderna. Non è meno vero, tuttavia, che quello fu un periodo molto complesso, saturo di chiaroscuri etici, equilibri politici, tensioni sociali e violenza di destra e di sinistra, e che, pur dominando dalla metà del 1976 alla fine del 1978 nella classe dirigente l’accordo politico, la responsabilità storica e la volontà di uscire tutti insieme dalla dittatura e costruire una democrazia, dall’inizio del 1979 – una volta approvata la Costituzione – la vita politica conobbe una discordia senza quartiere, una polarizzazione estrema e, a tratti, una irresponsabilità suicida, che due anni più tardi sarebbe sfociata in un colpo di Stato.
Quello fu il momento chiave. Giuridicamente, la democrazia iniziò il 27 dicembre 1978, quando fu promulgata la Costituzione dopo essere stata approvata con un referendum tre settimane prima; simbolicamente – cioè realmente —, iniziò alle sei e mezza del pomeriggio del 23 febbraio 1981, nell’emiciclo del Congresso dei Deputati, quando i tre politici più determinanti per l’instaurazione della democrazia, che per la maggior parte della loro vita non vi avevano creduto – Adolfo Suárez, il generale Gutiérrez Mellado, Santiago Carrillo – decisero di rischiare la vita per la democrazia. Morì allora anche il franchismo? Non bisogna fare i sofisticati: sì, per motivi ovvi; non bisogna essere ingenui: no, perché il passato non passa mai: è una dimensione del presente senza la quale il presente è mutilato.
La cosa migliore che si possa fare con il passato, a partire dal passato più tenebroso, è cercare di capirlo: è l’unico modo conosciuto per poterlo dominare e impedire che sia lui a dominare noi, costringendoci a ripetere ancora e ancora gli stessi errori. In altre parole: è impossibile fare qualcosa di utile rispetto al futuro senza avere sempre presente il passato.
Quanto a me, il disgusto insuperabile che mi provoca la morte mi impedisce di rallegrarmi persino per quella di un individuo tanto sinistro e sanguinario come Francisco Franco.
La verità è che non so che diavolo stiamo celebrando.