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 2025  novembre 18 Martedì calendario

Teologia e musica: Bach suona da dio

Johann Sebastian Bach (1685-1750) non è solo uno dei grandi compositori dell’Età barocca, ma è anche spesso considerato un “teologo della musica”, al punto da essere stato soprannominato “il quinto evangelista” dall’arcivescovo svedese Nathan Söderblom.
Tutta la sua opera – dalle Cantate settimanali alle grandi Passioni, passando per le Variazioni Goldberg e fino alla monumentale Messa in Si minore (BWV 232) – testimonia una fede luterana fervente e un’intima comprensione della liturgia. Diversi autori hanno analizzato questa dimensione teologica della musica di Bach: già all’inizio del XX secolo Albert Schweitzer e più recentemente i lavori dei gesuiti Christoph Theobald e Philippe Charru. Sulla scia del loro lavoro, ho a mia volta modestamente proposto un’interpretazione delle Variazioni Goldberg come esperienza teologale. Questo articolo propone un breve percorso di queste analisi.
Per tutta la vita Bach rimase al servizio della Chiesa luterana, assumendo le sue funzioni di cantore (in particolare a Lipsia, 1723-1750) come un vero e proprio ministero musicale. (…) Le Cantate di Bach (…) erano destinate al servizio liturgico della domenica mattina. Dopo la lettura del Vangelo e l’omelia, veniva eseguita la cantata, che svolgeva il ruolo di una meditazione spirituale in musica che prolungava e illustrava la Parola ascoltata e dava corpo alla risposta del credente. Bach e i suoi librettisti spesso mettono in scena una vera e propria omelia musicale: la cantata inizia con un coro introduttivo solenne su un testo biblico o un grande inno, poi si sviluppa in recitativi e arie che esprimono a turno la condizione umana (peccato, angoscia, domande) e la risposta della fede (grazia, consolazione, esortazione), per concludersi con un corale armonizzato in cui l’assemblea è implicitamente invitata a unirsi al canto.
Alcuni anni dopo le “grandi Cantate” del repertorio di Bach, i 17 corali dell’“Autografo di Lipsia” metteranno in musica la presenza e l’azione dello Spirito di Cristo. (…) Bach compone con la convinzione che la musica sia uno strumento teologico, capace di metterci in contatto con Dio. E non semplicemente con un Dio astratto, ma con il mistero della comunione che rende possibile la conversione del peccatore. La struttura interna di questi corali corrisponde quindi esattamente al duplice intento iniziale di Lutero, che era quello di rendere la musica un’esperienza estetica e spirituale, un’esperienza della dinamica dell’unione con Dio.
Nelle Cantate, “testo e musica sono così perfettamente accordati che non è possibile studiarli separatamente”, affermano Charru e Theobald. (…) Secondo i due autori, questa corrispondenza organica tra significato e suono è erede della tradizione del figuralismo barocco, che mira a esprimere le idee attraverso figure musicali evocative. Bach porta questa tecnica al suo apice, al punto che si può parlare di un “figuralismo totale” nel suo pensiero musicale, che coniuga simboli numerici, motivi melodici, scelta delle tonalità, per significare l’esperienza spirituale del credente che risponde alla Parola di Dio. Albert Schweitzer (1875-1965) – teologo, organista e interprete di Bach, poi medico a Lambaréné, in Gabon – aveva già catalogato, a modo suo, le molteplici figure retoriche al servizio della teologia delle Cantate. Egli nota, ad esempio, l’uso del motivo della croce (incrocio di linee melodiche che evocano visivamente una croce) su parole come Kreuz (“croce”) o kreuzigen (“crocifiggere”) in alcune arie, o ancora i melismi ascendenti su termini come Himmel (“cielo”) per significare l’elevazione verso Dio. Ha anche sottolineato l’uso dei numeri, ad esempio le tre voci della tripla fuga in Mi bemolle maggiore, concepita come “un simbolo della Trinità”, dove lo stesso tema assume successivamente tre caratteri per rappresentare il Padre, il Figlio incarnato e lo Spirito Santo. Queste trovate non sono giochi gratuiti: testimoniano l’intenzione di Bach di tradurre le verità della fede in un linguaggio musicale comprensibile a chi sa ascoltarlo. (…)
Le due grandi Passioni – la Passione secondo San Giovanni (BWV 245, composta nel 1724) e la Passione secondo San Matteo (BWV 244 del 1727) – occupano un posto centrale nel repertorio del Cantore. Per Charru e Theobald, la musica delle Passioni di Bach deve essere intesa come una lettura spirituale del testo evangelico. Bach, infatti, non si limita a illustrare il testo scritturale (che segue, peraltro, con grande rispetto): lo illumina e lo drammatizza per farne cogliere il significato profondo all’ascoltatore. Ad esempio, nella Passione secondo Matteo, ogni volta che Gesù parla, è circondato da un alone di archi che sostengono la sua linea vocale. Un dettaglio orchestrale che conferisce alle sue parole un’aura messianica. È solo durante il suo grido di abbandono sulla croce (“Mio Dio, perché mi hai abbandonato”, Mt 27,46) che questa aureola orchestrale scompare, sottolineando, con questo improvviso silenzio, la kenosis del Cristo sofferente.
Nella Passione secondo Giovanni, invece, l’accento teologico è posto sulla glorificazione di Cristo sulla croce (fedele alla teologia giovannea in cui la croce è già esaltazione). Bach sottolinea questo aspetto con un clima musicale più drammatico e condensato rispetto alla Passione secondo Matteo. L’opera si conclude non con una scena di resurrezione in apoteosi, ma con un coro finale di dolce serenità, come una ninna nanna funebre fiduciosa, seguito da un corale dell’assemblea che canta la speranza della resurrezione. Teologia della fiducia escatologica: il credente, di fronte alla morte di Cristo, ripone la sua speranza in Dio per la vita eterna. La forza spirituale di queste due Passioni risiede in gran parte nella loro ospitalità: Bach offre una musica di una ricchezza accessibile a diversi livelli di ascolto, dall’esperto al dilettante, “gratuita e ampiamente aperta”, che tocca ogni persona e la lascia libera nel suo percorso interiore. (…)
La Messa in Si minore (BWV 232) occupa un posto speciale nell’opera di Bach e nella storia della musica. Completata tardivamente (verso il 1748-1749) Bach rileggendo il libretto della messa cattolica da credente luterano, si pone la domanda: qual è lo scopo ultimo del culto cristiano? Basandosi sull’episodio della Samaritana (Gv 4,23-24), Lutero aveva risposto che il vero culto deve essere reso “in spirito e verità”, cioè nella fede interiore autentica e non nella semplice ripetizione di riti esteriori. Secondo Charru e Theobald, la Messa in Si minore è un itinerario verso questo culto in spirito e verità. Così, ad esempio, il Dona nobis pacem riutilizza la musica del Gratias agimus tibi del Gloria – una scelta notevole: Bach conclude la sua Messa con una ripresa di un coro di lode trasformato in supplica per la pace.
Nelle ultime opere di Bach, la dimensione esplicitamente religiosa sembra talvolta assente (L’arte della fuga, alcuni brani per organo), ma il Cantore vi inserisce comunque significati teologici nascosti (monogrammi musicali, simboli numerici) come se volesse esplorare fino in fondo l’idea che anche la musica strumentale profana possa far provare la gloria di Dio ed edificare l’anima. È in questo contesto che nelle Variazioni Goldberg si può cogliere una proposta di esperienza teologale sconcertante: queste variazioni, infatti, non si basano su un tema melodico identificabile e lasciano l’ascoltatore in una sorta di smarrimento. Di cosa sono variazioni? Tutti i punti di riferimento della ripetizione dello Stesso (ciò con cui gioca una Variazione, per costruzione) sembrano persi. In realtà, si tratta di variazioni su una stessa architettura armonica. Forse per farci capire meglio che l’intreccio armonico (lo Spirito che opera in ciascuno di noi e che ci mette sempre già in relazione gli uni con gli altri) è l’unica cosa che conta? Che è a partire da essa che ciascuno può inventare la propria melodia singolare (come fa ogni Variazione), che sgorga dall’interno come da una “sorgente d’acqua che zampilla” (Gv 4,14)? Sarebbe anche questo il “culto in spirito e verità”?