la Repubblica, 18 novembre 2025
Pilar Fogliati: “Tradita da una mia amica, è stato bruttissimo”
“Giro a Roma il film di Francesco Bruni, tratto liberamente dal libro di Irene Graziosi, Il profilo dell’altra – s’appassiona Pilar Fogliati – È una bella storia d’amicizia tra una trentenne e una diciottenne, una, scrittrice in crisi, finisce per fare la ghostwriter della seconda, influencer famosa. Due generazioni che si guardano e si scontrano, nasce un legame molto contemporaneo. Racconta il contemporaneo e i disagi dei giovani. È ambientato a Milano, recito in milanese».
Lei si sente ancora ragazza?
«Ho 32 anni, ma faccio ruoli di donne non del tutto compiute perché mi sento ancora ragazza, mi intriga l’adolescenza».
In Breve storia d’amore, dal 27 in sala, di Ludovica Rampoldi è una madre di famiglia che si muove in bilico sul tradimento. Un tema che infiamma ogni generazione.
«Appena nomini l’argomento la reazione è “terribile”, eppure è diffusissimo. È un tema da bar e da psicologo, tocca tutti e innervosisce tutti. Ed è giusto che il cinema provi ad andare oltre il giudizio: che succede nella mente di chi tradisce? Chi è felice tradisce? È sempre colpa dell’altro?».
Lei da che parte sta?
«Di quella di chi è chi è onesto con sé stesso. Non demonizzo chi tradisce, né santifico chi non lo fa».
Ha vissuto un tradimento forte?
«Sì, con un’amica. È bruttissimo. Col tempo non giustifichi, ma sposti lo sguardo: è anche un problema suo».
Sul fronte generazionale cambia l’approccio al tradimento?
«Un tempo spesso il matrimonio era uno scambio. In quel contesto il tradimento maschile era quasi previsto, e le donne dovevano subirlo. Oggi c’è attenzione alla salute mentale, al benessere individuale. Diamo peso all’io: se una donna lavora non deve sposarsi per forza, e allora cambiano le dinamiche».
Lei non è mai stata un’influencer, ma i social l’hanno resa virale.
«È stato casuale e bellissimo. Molti cercano di emergere sui social: io no. Mi sarei vergognata troppo a fare video comici, dialetti, vocine. È successo per caso, è stata una fortuna. Mi ha fatto conoscere un lato comico che già praticavo nel mio lavoro. Non snobbo i social, anzi penso siano una grande occasione per gli artisti giovani. Però non sono coraggiosa: c’è sempre quel senso di timidezza, di vergogna. E mi spaventa l’esposizione: oggi c’è più espressione, sì, ma anche molte più critiche. E fanno male».
Della piccola Pilly baby quella che cercava quadrifogli in giardino cosa è rimasto?
«È rimasta la parte che si sa auto-intrattenere, che sogna, che si perde nelle cose. Quella che cercava quadrifogli per sei ore – mia madre ci teneva occupate così — c’è ancora tutta. Sta andando via la parte ingenua dell’adolescenza, quella che si voleva meno bene».
La sua adolescenza ribelle?
«Quando mi innamoravo ero Giulietta: perdevo la testa e sparivo per tre giorni, facendo svenire i miei. Sono salita su treni senza biglietto, nascondendomi nel bagno, pur di stare due ore con chi volevo vedere. Sono stata un po’ vagabonda: ho dormito in talmente tante case di amiche che oggi mi sento a mio agio ovunque».
Il momento più difficile della carriera?
«Quello prima che esplodesse il video comico. Ti senti dentro una precarietà devastante: lavori è come costruire mattoni di sabbia. Dopo il diploma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico passi da un posto super protetto al mercato, da sola, a fare provini. Ti dici: “Se entro due anni non divento attrice, apro una gelateria”. La cosa dura è sapere che quella sensazione può tornare, anche nei periodi buoni».
Che gavetta ha fatto, le particine da fiction?
«Sì, il classico “caso di puntata”: la serie parla di un avvocato e tu sei il cliente di quella puntata, in Don Matteo sei la morta ammazzata. È lo svezzamento al mestiere. Ne ho fatti molti. In Che Dio ci aiuti avevo tre pose: ragazza madre, vent’anni. Mi danno un bebè vero che piangeva, io volevo morire. Tre giorni prima mi ero slogata la caviglia, una cosa seria, e mi vergognavo a dirlo perché temevo che non mi chiamassero più. Sono andata sul set con i jeans larghi per nasconderla. La costumista l’ha notato, io le ho detto: “Ti prego, non dirlo a nessuno”. Un’altra volta, alla prima cosa che ho fatto, ho scoperto solo dopo che il personaggio guidava: io non avevo la patente. La vergogna nel dirlo…pensavo mi cacciassero. Invece no. Ma all’inizio ti senti così fortunata che andresti al lavoro anche senza un braccio».
I temi che le interessano?
«La salute mentale giovanile, più di tutto. Ho una sorella di diciotto anni, sento i racconti suoi e delle amiche, e mi toccano profondamente. Mi distrugge sentire di ragazze e ragazzi che stanno male per la scuola, per la pressione, per l’idea di fallire. Non so cosa posso fare, se non raccontare anche le storie di chi non è “speciale”, di chi non ce la fa, e dare dignità anche a loro».
Il ritorno dei giovani in piazza?
«Mi ha reso felice. È un segnale sano di partecipazione. Si dice sempre che siamo individualisti, tutti a casa a vedere serie, ma poi vedi questi ragazzi che sentono il bisogno di scendere in piazza per un’idea di umanità. Detesto la critica “non sanno niente”: intanto fanno, e non sono a casa a cazzeggiare».
Lavora a un nuovo film da regista?
«Sto scrivendo una storia sulle giovani non più adolescenti, ma non ancora donne. Parla di identità, di non farcela, di non essere speciali. Sempre in forma di commedia, ma con cose amare dentro. È il genere che sento più mio».
Chi la ispira oggi?
«Mi appassiono ai provini dei talent. X-Factor, audizioni, performance davanti a una giuria: vedere qualcuno che si mette lì, con un sogno e tutte le sue incertezze, mi emoziona, ci pesco mille dettagli. Seguo su Instagram persone comunissime, ragazze che vendono prodotti. Ma io rubo tutto: modi di parlare, goffaggini, ambizioni. Sono sempre stata fissata con i personaggi “codificati” socialmente, come in Romantiche. Ora ho abbassato l’età: guardo le ragazze che muovono i primi passi, con entusiasmo e paura insieme, che sono al primo approccio con il sogno».