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 2025  novembre 18 Martedì calendario

Milano, la caccia disperata alla baby sitter. Prezzi alle stelle e app modello Tinder, ai colloqui è la tata che sceglie: «Voi che genitori siete?»

«Parla tu stavolta. Io finisco sempre per chiederle se mangia carne o no». Sul tavolo di marmo, due bicchieri di vino, una lista scritta a penna: lunedì/venerdì – 2 sabati al mese – meglio se automunita – emergenze. Marta e Riccardo, una bimba di quasi due anni, hanno già fatto quattro colloqui in una settimana. «Se scappa anche questa, io domani chiedo il part-time». Lui si aggiusta la camicia, lei sistema i giochi in salotto: attendono la candidata numero cinque. Nel mercato milanese della cura, i ruoli si ribaltano. Chi si fa assumere, sceglie per primo; chi assume, finisce al vaglio. «Noi ci limitiamo a sembrare la famiglia giusta», dicono. La caccia alla tata è una prova di resistenza: un esercito di genitori che fa colloqui la mattina prima dell’ufficio, prove al parco tra una call e l’altra, contratti stampati di notte. Budget che oscillano tra 1.400 e 1.900 euro netti mensili da destinare «a qualcuno che tenga il ritmo al posto nostro». Un unico dogma: «Sperare che quella giusta abbia posto per noi». Il Corriere ha seguito quattro famiglie nel percorso di ricerca, dal primo contatto all’ingaggio.
È la tata a scegliere la famiglia
«Mi raccontate voi, che genitori siete?», chiede Valentina, che sul profilo Linkedin si definisce «tata olistica». Si siede a terra appena entra, tira fuori colori e un flauto di legno. «Più relazione, meno comandi: funziona sempre». Giampiero e Caterina sono avvocati: due stipendi medio-alti, poco tempo e la resa davanti a un’agenda troppo piena. Hanno imparato a scandire la vita per turni: una porta i bambini a scuola, l’altro li recupera alle 17, entrambi scrollano l’iPhone di notte alla ricerca di qualcuno che possa far quadrare le ore. «Un equilibrio da ricostruire ogni settimana». Il giro è sempre lo stesso: app per scremare (Sitly, Toptata, Yoopies, Supertata), agenzie quando serve qualcuno «formato e testato», passaparola nei gruppi chiusi di zona. 
Cuoricini (come su Tinder)
«Le piattaforme sembrano Tinder»: servono per orientarsi, non per decidere. «Scorri, metti il cuoricino, aspetti la risposta». Profili ordinati per quartiere, lingue, disponibilità. «Ci vuole metodo: è un secondo lavoro», racconta Caterina. La sera, dopo cena, i due si siedono al tavolo. Visionano chi si propone: tutti sorrisi e parole chiave – responsabile, affidabile, paziente, creativa. Tariffe che variano dai dieci ai quindici euro l’ora. Ogni scheda è un curriculum sentimentale: «Amo i silenzi dei bambini». «La calma è la mia prima competenza». «Gentile, ma so dire no». Sei messaggi inviati: alcune candidate spariscono, una accetta «ma solo fino a dicembre», un’altra confessa che in realtà vive a Monza. «Devi avere nervi saldi», sospira Giampiero.
Portinerie digitali
«La nostra si libera da marzo: sa far addormentare anche i più nottambuli». «Dolce, ma non sa cucinare». «Parla di sé in terza persona, ma ha la patente». Quando le app falliscono, si sale di categoria. Si chiama passaparola digitale, una portineria di quartiere 2.0. È un mercato parallelo: ogni segnalazione, una mini-recensione. C’è un ritmo di solidarietà e competizione insieme: chi trova una brava, la segnala, ma con cautela, «non troppo presto, per non farsela soffiare». Ogni quartiere ha la sua borsa di nomi: in Porta Romana vanno forti le studentesse universitarie, a Isola le educatrici di scuola steineriana, in zona Fiera le ex-maestre dell’infanzia.
Maddalena è editor in una casa editrice milanese, i suoi orari non sono prevedibili, i suoi spostamenti non hanno preavviso. Un marito in trasferta. Da una collega, riceve un link a un gruppo Telegram: «Tate in zona Piola». Cinquecento iscritti, messaggi ogni minuto. Scorre, prende appunti, salva numeri. Poi un colpo di fortuna: «Noi ci trasferiamo, lei rimane: se vi può servire, vi condivido il suo numero». L’appuntamento è ai giardini di Porta Venezia. Si chiama Mihaela, romena, quarant’anni, dieci di esperienza in Italia. È sorridente, parla piano, tiene la bambina in braccio come se fosse di vetro. «Forse abbiamo trovato», scrive Maddalena a Carlo, che la legge da un hotel a Varsavia. Poi la condizione: «Io lavoro solo in regola, contratto pieno, tredici mensilità e straordinari pagati». Sollievo e paura, sensazione doppia: «Ma quanto ci costerà?», mette in fondo, prima di premere invio.
I nomi nella «shortlist»
A Milano ormai «è più difficile che cercare casa», dice Laura, mamma di due gemelli e neurologa, notti in reparto e visite in studio di giorno. Quando la ricerca deve funzionare, non si prova più: si ingaggia una piccola agenzia di zona, di quelle che fanno selezione e pratiche Inps. Ufficio al piano terra, insegna discreta. Dietro la scrivania, una consulente che non perde tempo con i convenevoli. «Età dei bambini? Orari veri, non ipotesi. Chi rientra prima?». Una raffica di domande che misura i bisogni. «Il mercato è fermo, ci sono più famiglie che tate. Vi serve convivente o nel diurno?». Andrea e Laura cercano di tenere il passo. «Giornaliera. 8-19.30: rientriamo alle sette». «E il weekend?». Altro sguardo. «Ogni tanto, sì». «Budget?». «Non più di duemila». La consulente registra. «Vi preparo una shortlist: tre nomi, tre profili. Tutte referenziate». 
«La prova è nostra»
Nel gergo si chiama matching, l’incastro: compatibilità di orari, stile educativo, logistica. Tariffa di intermediazione: una mensilità. «Facciamo un investimento», taglia corto Laura. «Meglio che litigare ogni giorno per chi rientra prima». In meno di un’ora, hanno due prove fissate e un caffè informale con la tata che sta per concludere un incarico. «Report serale? Routine fissa? Io imposto tutto». La prima arriva preparata: parla senza pause, elenca moduli e certificazioni. Una semantica da ufficio. Andrea annuisce, ma sente quella stretta allo stomaco: sembra lui ad essere sotto esame. La seconda non parla quasi. Raccoglie un libro caduto: «Come si chiama questo signore?», chiede al peluche. Nessuna teoria. Un gesto. «Sapete dire no a vostro figlio?». La terza, voce morbida e accento levigato, saluta in inglese appena i piccoli entrano in salotto: «Let’s tidy up together?»; temono l’effetto recita, ma la competenza è rocciosa. Poi c’è la realtà: orari che non coincidono, weekend già impegnati, un altro colloquio che sfuma. «A Milano non si sceglie: chi si libera, si prende», sospirano.
Dietro l’ordine, una domanda che non si mette a verbale: «Riusciremo a fidarci?». La svolta, spesso, è un suono. Una risata nella stanza accanto, una voce che canta una canzone inventata. «L’incontro giusto nasce solo quando nessuno forza la mano», osserva Maria Cristina Brinetti, fondatrice di Spaziocuore, agenzia che da anni incastra orari e biografie nel mercato milanese della cura. «Non esiste la formula perfetta, ma la sintonia che resiste nel tempo». Per ottenere un sì, il passo decisivo è il contratto. Orari veri, notti specificate, trasferte con anticipo, contributi. E la prova fissata a quattordici giorni. Tutto in regola. «Le agenzie ti mettono davanti la tabella del contratto domestico». Inquadramento; livello BS per le babysitter, 40 ore settimanali per chi non convive, tredicesima, ferie e TFR maturati ogni mese. «Se usi la rete dei nonni, basta un accenno: metà contratto, metà contanti in busta». 
Tre settimane dopo, Riccardo entra in casa e sente una filastrocca recitata piano. Violante, la sua bambina, ride. La lavatrice gira, il tavolo è pieno di disegni. Sul frigorifero un post-it: «Pappe finite. Domani prendo io. Buona serata». Le app restano aperte anche dopo aver trovato la tata, «per sicurezza». Ogni tanto compare un messaggio: «Libera da novembre. Disponibile per colloqui».