Corriere della Sera, 18 novembre 2025
Intervista a Roberta Tagliavini
Roberta Tagliavini, 83 anni, mercante d’arte, personaggio tv e imprenditrice. Di lei Giorgio Armani ha detto: a Milano bisogna vedere due cose, il Cenacolo e Robertaebasta, la sua galleria.
«Mi ha sempre ammirata, come io ammiravo lui: mi confessò che veniva davanti alle vetrine del mio negozio in Brera a prendere ispirazione per disegnare i suoi mobili. Vide una libreria rotonda in legno di palma stile Déco e la comprò per metterla davanti al suo letto. Quando qualcuno doveva fargli un regalo diceva: andate da Robertaebasta. Il suo fidanzato veniva da me per il suo compleanno. E per il novantesimo ha voluto le uova di Fontana: le hanno pagate i dipendenti».
Nella sua biografia «La Mercante di Brera» ripercorre gli inizi non facili: è stata una self-made-woman.
«Non ho avuto una famiglia modello. Con mio padre avevo un pessimo rapporto: andava a donne, non mi ha mai comperato nulla, tranne un abito a quadri cucito dalla sua amante. Mia mamma mi tagliava i capelli corti perché stando sempre in mezzo alla strada temeva che potessi attirare i malintenzionati».
Nata a Bologna, ha frequentato le scuole con Mara Maionchi.
«Eravamo nella stessa classe. Non ho avuto l’amica del cuore, anche se l’avrei desiderato: non mi chiamava nessuno per uscire».
Si sposa per sfuggire a una situazione pesante. E ne trova una peggiore.
«È stato un matrimonio difficile, soprattutto per la convivenza con i miei ex suoceri. All’inizio vivere insieme mi piaceva, erano la famiglia che non avevo mai avuto. Gente unita, che si voleva bene e mangiava ogni giorno a tavola: da noi non succedeva mai, mia madre mi lasciava il cibo e usciva a lavorare. Io lo buttavo».
È stata una delle prime donne separate in Italia.
«Ho conosciuto mio marito a 13 anni, il giorno di Pasquetta al picnic di San Luca, una tradizione della Bologna più popolare. Lavorava nella ditta del padre che faceva casse da morto e gambe di legno: una famiglia di intagliatori, mi fecero un pennino a forma di bara che portai a scuola. La professoressa si spaventò moltissimo. Ci siamo sposati che avevo 16 anni, abbiamo avuto nostra figlia a 18. A 22 anni ero già separata».
Cosa la fece decidere?
«Prenotai un viaggio a Parigi. Ma mio marito non uscì mai dalla stanza dell’albergo perché i suoi genitori non volevano che andassimo fuori dall’Italia. Mio suocero diceva che andare all’estero era immorale. E anche il giudice gli diede ragione. Sosteneva anche che avere le poltrone in casa era scandaloso: incitavano all’ozio. Prima di separarmi ho dovuto aspettare la legge del 1975, in Italia il divorzio non esisteva».
È sfuggita al patriarcato.
«Iniziai a lavorare in una ditta di trattori. Provarono a mettermi contro nostra figlia Malena: le dicevano che l’avevo lasciata sola e preferivo fare la bella vita. Mi davano la caccia ovunque e mi aspettavano sotto casa per vedere se mi incontravo con qualcuno».
Poco dopo in effetti ha incontrato il suo nuovo compagno, Alberto Martinelli.
«Mi sono separata a maggio e ad agosto sono andata in vacanza a Riccione: lì ho incontrato Alberto. A novembre sono venuta a vivere a Milano».
Abbandona i trattori ed entra nell’arredamento.
«Avevo sempre avuto la passione: a Milano trovai uno spazio su strada alla galleria di piazza San Babila con una socia. Mio marito era a contatto con l’ambiente artistico, viveva in via Gluck con l’autista di Celentano: grazie al passaparola i cantanti arrivavano da tutta Italia. Conobbi Al Bano che era fidanzato con la figlia del proprietario del Dollaro, dove faceva il cameriere. Aveva un bel viso e personalità, alle donne piaceva».
Il suo Adriano Celentano dietro le quinte.
«Stavamo sempre insieme, ma di mobili non me ne ha mai comprati. Girava con lo zio Gino Santercole che era più giovane di lui, perché la madre di Adriano lo aveva avuto a 55 anni, senza sapere di essere incinta: era sovrappeso e non credeva di aspettare un bambino. Nacque a sorpresa il giorno dell’Epifania».
Chi è stato il primo cliente importante?
«Nel primo negozio in galleria entrò Gianni Versace: comprò una colonna di onice nera. Agli inizi era prepotente e finimmo per litigare: poi si ammalò e facemmo pace. La malattia gli aveva cambiato il carattere, era diventato dolce e riflessivo. Negli anni Settanta capitava anche Renato Zero che comprava piccole bambole fatte a mano che assomigliavano alla sua fidanzata».
Nel 1979 si stacca dalla socia: nasce Robertaebasta.
«Volevo fare l’art-déco, lei era fissata con il Settecento. Aprii per conto mio e chiesi a mio marito: “Come lo chiamo?”. E lui “Roberta e basta”. Come per dire solo Roberta. E invece io usai davvero tutto quel nome per intero, “Robertaebasta”. Sono sempre stata una decisionista».
Capace di contrattare in un mondo di uomini.
«In quel periodo ho cominciato ad andare a Parigi dove riempivo i carrelli di Liberty e Déco che portavo nel nuovo negozio in Brera a Milano. Arrivavo con il camion alle 7 del mattino per battere tutti sul tempo: all’epoca nessuno in Italia proponeva quel genere».
Il pezzo più importante che ha venduto?
«Alcuni quadri di Fontana. Gianfranco Ferré arredò il suo spazio in via Pontaccio con i miei mobili. Avevo intuito e visione, poi l’incontro con persone colte come l’antiquario Carlo Venturini mi permisero di fare il salto: ho scoperto grazie a lui gli orientalismi di Bugatti. Fu lui a decifrare che dei pezzi scovati da un robivecchi erano manufatti rari e di grande valore. Li comprai per 5 milioni e li rivendemmo a 130 a un americano, Mitchell Wolfson jr, che aprì il museo Mackenzie a Genova».
Gli anni 80 a Milano erano «da bere» anche per lei?
«Lavoravo a testa bassa, ero piena di debiti e con un bambino piccolo, Mattia, che da grande è diventato il mio più stretto collaboratore. Da me venivano tutti gli stilisti e gli artisti, da Roberto Cavalli a Milva. A Mina arredai tutta la casa dove viveva con Augusto Martelli: sul citofono mise il mio cognome, invece del suo, per tutelare la privacy. Si fermava a fare l’uncinetto in negozio da me e se entravano i clienti li serviva lei. Loro dicevano: “Signorina, lei è la copia di Mina!”. La sera Augusto e mio marito giocavano a poker insieme».
Quanto l’hanno aiutata le pubbliche relazioni?
«Non le ho mai fatte. Ho arredato la casa di tanti personaggi ma non ho mai accettato inviti. Un imprenditore con case ovunque mi disse: “Sei l’unica che non fa carte false per venire a cena da me”».
Amicizie nate nel lavoro?
«A Marta Marzotto arredai la casa in Brera: pranzavamo insieme e guardavamo Beautiful, prima di riprendere il lavoro di pomeriggio. Patrizia Reggiani Gucci quando aveva un giorno premio dalla prigione veniva da me. Aveva due case meravigliose, in Piazza San Babila e Corso Venezia, dove andò ad abitare dopo la morte di Maurizio. Oggi sta molto male, purtroppo».
Clienti internazionali?
«Mick Jagger a Londra. A Milano è entrato Tom Cruise e non l’ho riconosciuto. Ho pensato: “Questo piccoletto l’ho già visto”. Ma non ho riconosciuto neanche Cate Blanchett. Era venuta qui dopo la famosa frase di Armani. Da poco c’è stato il rapper Drake con quattro guardie del corpo: ha comprato mezzo negozio».
La casa più bella?
«Le più belle sono in Francia: hanno la grandeur. Da noi sono contenitori».
Una casa arredata male?
«Molte, anche di persone ricche. Succede quando agli architetti scappa la mano ed esagerano. O a chi è presuntuoso e non si fa aiutare».
La televisione la diverte?
«Mi ha ringiovanito: a una certa età ti senti inutile e superata, fare televisione mi ha allungato la vita. Cerco di far tornare la voglia ai ragazzi di fare i falegnami o i tappezzieri».
Il suo motto.
«Non cedere e non mollare mai, tutto si supera».