Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  novembre 16 Domenica calendario

Intervista a Sergio Caputo

A volte ritornano. A quasi due anni dall’ultimo tour, Sergio Caputo ritrova la strada di casa e dal 22 novembre sarà di nuovo in tour in Italia fino a metà marzo con una band di sei elementi e in trio. Primo appuntamento all’Auditorium di Roma, la sua città natale, nella sala più grande: la Santa Cecilia. Originale, indipendente e di carattere, Caputo con album popolarissimi come Un sabato italiano, Italiani mambo, No Smoking, Effetti personali, Storie di whisky andati e via cantando, ha definito parte della colonna sonora degli Anni Ottanta, poi nel 1998 è andato a vivere in California, ha mollato le major del disco (e viceversa), si è messo a suonare jazz, ha rivisitato (benissimo) il suo repertorio, ha divorziato, si è risposato, ha avuto cinque figli... Insomma, non si è risparmiato. Adesso vive sulla Costa Azzurra, in Francia, con la seconda moglie (italiana), Cristina Zatti, e i tre figli avuti da lei di 13, 12 e 8 anni. Lui ne ha 71 e, a parte i capelli che l’hanno salutato da tempo, se li porta in maniera molto disinvolta.
Come si presenta oggi, a che punto è?
«Sono nella bizzarra situazione un po’ divertente e un po’ inquietante – in cui la mia carriera è nelle mani di persone che non erano neanche nate quando è cominciata».
Non si fida dei giovani?
«Sì, abbastanza. Mi piacciono loro e anche le novità, ma visto che fare album non ha più senso, il fatto di dover far uscire un singolo almeno ogni due-tre mesi per non sparire del tutto – non mi entusiasma. Io però continuo a scrivere come ho sempre fatto, per durare nel tempo, quindi a chi mi segue dico: mettete insieme i pezzi e fatelo voi l’album».
Qual è il problema?
«Se si continua a far così, la musica finirà. Si produce troppo e senza senso. Basta con il calcolo dei follower per costruire carriere che poi durano una stagione. Basta con cantanti che non sanno cantare, e non sanno cosa dire, e usano la musica per poi andare a fare podcast o altro. Dovrebbe essere proibito dalla legge... Nessuno si farebbe operare da un medico che non sa farlo, perché non succede lo stesso con la musica?».
Va bene. Rispetto alle tante cose fatte in tutti questi anni, ha raccolto il giusto o no?
«Probabilmente no. Però è anche vero che per non lasciarmi mettere dentro la solita gabbia ho fatto cose molto diverse da quelle che mi hanno reso famoso. Se non mi fossi comportato così, però, oggi non ci sarei più. Il ragionamento è semplice: se fai sempre le stesse, tutti prima o poi te lo rinfacceranno. Se cambi, invece, ti diranno che non sei più lo stesso. Meglio fare quello che uno sente dentro di sé. Non sbagli mai, vada come vada».
Assecondarsi è stato faticoso? L’ha pagata cara?
«Sì, certo. C’è voluto del coraggio, io sono indipendente dagli Anni 90, quando smisi di lavorare per una grande casa discografica. All’epoca se andavi per conto tuo diventavi invisibile, non andavi più in tv. Baudo, per esempio, che per un periodo mi ha anche apprezzato, a un certo punto decise che se un artista non vendeva almeno 600 mila copie non meritava di andare in video. Quindi iniziò una selezione feroce, che non è il massimo per uno che vuole fare l’artista. Così me ne andai in America, in Italia non trovavo più gli stimoli giusti. Iniziai con mia grandissima soddisfazione a lavorare tanto come chitarrista jazz in band di un livello strepitoso».
Quando?
«Nel 1998. In totale ho vissuto a San Francisco per dodici anni, sei dei quali senza mai tornare in Italia. Lo feci perché Panariello nel 2003 mi invitò su Rai1 per il suo show Torno sabato. Da quel momento in poì ripartì il mio lavoro anche nel nostro Paese».
Ma all’epoca l’etichetta di nuovo Fred Buscaglione le faceva piacere o no?
«Per niente. Una vera cazzata. Che c’entravo io con la caricatura del gangster?
Comunque, detto questo, grazie all’America adesso posso dire di sentirmi un musicista molto più realizzato di quanto non lo fossi prima».
Negli Anni Ottanta, nella fase del successo travolgente, rischiò di fare una brutta fine?
«Sì, quella vita mi stava distruggendo. Facevo un disco l’anno, poi lo promuovevo e andavo in tour. Non mi restava che la notte per rimettere insieme le idee, andare in giro, vivere. E fare cazzate».
Alcol, droghe e via dicendo?
«Certo. All’epoca si faceva così. Poi a un certo punto realizzai che non potevo più andare avanti così. Decisi che dovevo fare dischi, musica e tutto il resto, solo quando avevo qualcosa da dire. E iniziai a vivere un po’».
In America poi con la sua prima moglie andò a finire male, giusto?
«Sì. Il mio fu un terribile matrimonio americano. Finito malissimo. Dalla mia prima moglie nacquero due figli, che adesso vivono negli Stati Uniti, e con i quali non ho alcun tipo di rapporto. Non mi parlano».

Lei che ha vissuto in America così a lungo, l’avrebbe mai immaginato un sindaco musulmano a New York?
«Mi ha molto stupito l’elezione di Zohran Mamdani, che ha promesso cose irrealizzabili e sta facendo scappare la maggior parte dei capitali newyorchesi con la sua politica sugli affitti a basso costo. La città delle Torri Gemelle secondo me non doveva in alcun modo votare per un sindaco così. Non sono islamofobo, sia chiaro, anzi: sono per una convivenza pacifica e civile con tutti. Ciò non toglie che io e due miei figli piccoli nel 2016 siamo scampati per una questione di secondi alla strage del camion sulla Promenade des Anglais di Nizza, quella che ha fatto 84 morti e 450 feriti. Ho deciso di attraversare la strada per caso. Ci siamo salvati così. E certe cose non si dimenticano».
Passiamo ad altro. “Un sabato italiano”, dopo un po’, è diventato una specie di fardello, qualcosa da cui emanciparsi, un marchio quasi asfissiante?
«Sì. A un certo punto mi sono reso conto che era diventato un macigno. Tutti si aspettavano sempre quella roba. Non ne potevo più. Poi, anni dopo, partecipai come ospite a una puntata di Domenica In. A condurla c’era Toto Cutugno, il quale prima di andare in onda venne nel mio camerino per fare quattro chiacchiere amichevoli. E mi cambiò la vita».
Addirittura?
«Sì. “Non ti devi vergognare di fare un pezzo così amato dal pubblico”, mi disse, “l’hai scritto tu, non un altro, devi esserne orgoglioso. Se la gente te lo chiede sempre, vuol dire che è rimasto davvero nella memoria e nel cuore. Facci pace. Pensaci”. Mai avrei pensato che Toto Cutugno potesse impartirmi uan lezione così semplice e importante. Per me fu una svolta e quando vedo che nei concerti la cantano anche i ragazzini sono davvero felice».
Per lei oggi lo sfizio da togliersi qual è?
«Ho una vita molto tranquilla con la mia famiglia, sulla Costa Azzurra. Ho tre figli di 13, 12 e 18 anni e ho la giornata divisa in segmenti: la mattina li accompagno a scuola, poi mi applico sulla chitarra, mi esercito con la voce, faccio la spesa, cucino per moglie e figli, nel pomeriggio faccio un po’ di sport, scolpisco e dipingo. E se serve con le mani so fare quasi tutto, da una tavolo a un armadio. Sono sereno. Per fortuna, adesso è tutto diverso dalla mia precedente esperienza familiare. E da quest’anno sono anche entrato in un giro di musicisti francesi che mi portano a suonare con loro nei club di mezza Francia».
Quale Sergio Caputo si vede nel documentario “É sempre un sabato italiano”, in onda su Rai3 il 19 dicembre?
«È un viaggio nei luoghi che più sono stati importanti nella mia vita. Con me ci sono tre accompagnatori come Valerio Lundini, Ubaldo Pantani e Carlo Massarini».
L’errore peggiore fatto fin qui?
«Ehhh... Cito quello a cui penso spesso: non aver imparato a suonare il pianoforte. Lì ci sono tutte le note, sulla chitarra devi andare a trovarle. Ed è una faticaccia».
A Sanremo tornerebbe?
«Sì, certo. Per chi fa canzoni è l’unica cosa che c’è in Italia per farsi ascoltare. E adesso mi divertirei anche di più che in passato».
C’è qualcosa che prima o poi vuole assolutamente fare?
«Una colonna sonora. Tutti i registi italiani mi dicono che sono miei fan, però mai nessuno mi ha chiesto di comporre musica per loro. Ma sono sicuro che prima o poi ce la farò».