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 2025  novembre 16 Domenica calendario

Sean Griffiths: "Gehry e gli altri fanno gioielli mentre gli architetti anni 70 costruivano per la gente"

Sean Griffiths, chi è lei?
«Un ragazzo della classe operaia di Liverpool. Ho studiato per diventare architetto e alla fine dei miei studi, per una serie di coincidenze, ho fondato uno studio. All’epoca, era in corso una grande recessione, e nessuno offriva lavoro, così abbiamo fondato FAT».
Che divenne famoso?
«A quanto pare. Siamo sempre stati interessati a mescolare arte e architettura, che per noi è una sorta di mezzo artistico. Questo ci ha dato una libertà incredibile, facendo cose che oggi appaiono molto pacate, ma all’epoca sembravano oltraggiose».
Perché dice “noi”?
«Sono stati uno dei tre membri fondatori, insieme a Sam Jacob e Charles Holland. Eravamo una band con tre cantanti e nessun batterista. Eravamo tutti bravi come artisti, meno come imprenditori».
Come si decritta FAT?
«Fashion Architecture Taste. Pensavamo che l’architettura potesse includere idee estetiche diverse, anche della classe operaia e della cultura popolare».
Cosa facevate?
«Nessuno offre un grande progetto ai giovani architetti, perciò facevamo interni di night e bar, e poi agenzie pubblicitarie. L’agenzia olandese KesselsKramer ci aveva commissionato i loro uffici all’interno di una chiesa sconsacrata di Amsterdam, e ci abbiamo costruito una sorta di città del Selvaggio West. Un’altra è la Blue House di Londra, che da fuori sembra un fumetto e all’interno ha spazi molto complessi e sofisticati. Volevamo sposare l’architettura alta alla cultura popolare»
Perché ha poi fondato Modern Architect?
«Avevamo divergenze creative all’interno di FAT, e il mio nuovo studio voleva tornare alla tradizione modernista, perché eravamo un po’ come Johnny Rotten dei Sex Pistols, che diceva di odiare i Led Zeppelin perché bisognava odiarli se eri punk, ma in realtà gli piacevano».
Le piace l’architettura di Zaha Hadid o di Frank Gehry?
«No. Amo i primi lavori di Gehry, ma poi entrambi si sono evoluti in una sorta di avanguardia cominciando a fare progetti molto appariscenti da un punto di vista formale. Gli edifici di forma strana sono stati interpretati come radicalismo, anche se non credo lo fossero. Oggi molte città hanno un museo di Zaha Hadid e una biblioteca di Frank Gehry, fa parte della trasformazione dell’architettura in un marchio, come un gioiello o un profumo».
Però l’architettura contemporanea, come la stazione di Reggio Emilia di Calatrava, cambia l’idea di un luogo, da un posto con edifici storici a un segno dei tempi in cui viviamo?
«Ci sono tante cose dei tempi che viviamo che non mi piacciono. Non è questione di nostalgia, ma gli architetti degli anni’50-70 costruivano per la gente. Progettavano case popolari, scuole, municipi, stazioni dei vigili del fuoco e gallerie d’arte».
Oggi Jean Nouvel, Frank Gehry, Rem Koolhaas, Herzog de Meuron, sono delle superstar?
«Sì, li chiamano archistar ed è un segno della cultura e dell’economia contemporanee. L’idea dell’architettura come di un gioiello firmato che piazzi nella tua città non mi piace molto, anche quando mi può piacere uno di quei progetti molto appariscenti. Sono edifici che non sempre legano con il tessuto urbano e formano quartieri».
Una tendenza nata con il Centre Pompidou di Parigi, quando Piano e Rogers costruirono un edificio strano nel pieno del Marais?
«La loro idea era un po’ diversa, perché la storia di quell’edificio origina nella quale rivoluzione del maggio 1968. C’è del populismo interessante in quel progetto, nella piazza di fronte e le scale mobili sulle fiancate. È diventato un luogo di incontro, e un modello, ma conserva un’idea di essere parte della città, mentre il Guggenheim di Bilbao e altri progetti secondo me restano pezzi di scultura a se stanti».
Cosa dice di Haussmann, che invece ha cambiato completamente Parigi?
«È molto interessante per una serie di ragioni. Molti non sanno che 200 anni fa Parigi era una città medievale, con piccole strade contorte e case a graticcio con tetti di paglia. Haussmann fu in parte la risposta alle rivoluzioni del 1848, quando parti della città furono rese impenetrabili per l’esercito con le barricate. La risposta fu la demolizione della città vecchia e la costruzione di grandi viali. Parigi è la città borghese per definizione, e il progetto di Haussmann rispecchia lo sviluppo della nuova classe media generata dal capitalismo».
Haussmann creò il centro di Parigi, e anche i nuovi edifici di New York sono nel cuore della città?
«Parigi è una città imperiale, che riflette nella sua pianta la centralità dello Stato nella politica francese, qualcosa che è nel DNA francese. In una città imperiale ci sono viali che portano ai monumenti, con le vie che confluiscono in Place de la Concorde, con un monumento al centro. New York è democratica, e la sua pianta a reticolato rappresenta l’assenza di una gerarchia spaziale. È questo che rende le città così interessanti, perché rispecchiano la storia e la cultura, l’economia e le strutture di potere, quello che rende le nazioni diverse».
Londra non ha quel tipo di architettura, ma ci sono edifici imperiali a Piccadilly, il Mall e St. Paul?
«Se prende una stradina di campagna inglese, sarà piena di curve. Se mettere l’auto su un traghetto e andate in Francia, anche nelle zone rurali troverete una strada molto dritta, con la guglia di una chiesa alla fine, quando arriverete in un paesino e troverete, oltre la chiesa, un’altra strada dritta con la guglia che si vede in fondo. Ha a che fare con la centralità dello Stato, in una nazione dove potete costruire strade senza vincoli dei terreni privati, che rendono l’Inghilterra un mosaico».
L’arte e l’architettura plasmano il nostro tempo?
«Moltissimo. Guardate Doha, un tipo di città nuovo che parte da edifici iconici, intorno ai quali poi si sviluppa il resto. Sono città che non esistono solo nella realtà, ma anche su Instagram, nei film. Molti conoscono Dubai e Shanghai senza esserci mai stati, perché sperimentiamo le città non solo visitandole. È nato un nuovo tipo di città che esiste virtualmente, e non solo nella vita reale».