Specchio, 16 novembre 2025
"Non sono più innamorabile. Ora conta il mio lavoro. Poi ci sono i vecchi amici e i giovani pieni di talento"
«Con la morte cerco di avere un rapporto gentile. Negli ultimi anni ho avuto tanti lutti importanti, amici e familiari. La morte provoca sofferenza. E ha in sé un concetto di resa dei conti. Ma, anche quando vedo il suo feroce accanirsi, so che è un momento. E che volgerne in dolcezza la violenza è vincente». È con voce dolce che Drusilla Foer affronta l’argomento.
Nel kolossal Frida Opera Musical, interpreta La Catrina, ossia la Morte. Prodotto da MIC International Company e diretta da Andrea Ortis che lo ha scritto con Gianmario Pagano, lo show (che a Torino arriverà al Teatro Alfieri dal 4 al 7 dicembre, dopo avere toccato Milano, Firenze e Roma) racconta la parabola esistenziale ed artistica di Frida Kahlo (la interpreta Federica Butera), la cui vita a più riprese si intrecciò con la sofferenza e dialogò con la morte. Inevitabile che interpretare il personaggio che l’incarna secondo l’immaginario popolare messicano, porti a fare qualche riflessione sul tema.
«Mi trovo a cercare le persone che amavo e non sono più, proprio come quando erano in vita – continua l’attrice –. Ne ignoro la perdita. Nelle piccole cose quotidiane ti sorprendi a pensare a come le avresti condivise con loro: vedi una bella collana, e ti viene in mente che sarebbe un regalo perfetto per mamma, o un maglione che starebbe tanto bene a Sara o il vecchio disco che piacerebbe a Stefano...».
Riesce a essere gentile anche quando ricorda sua madre?
«La perdita è recentissima. E ancora la sofferenza mi prende con zampate d’aquila al petto. Ma lascio che accada. È un pensiero che va fatto fluire».
Il regista ha detto di avere costruita La Catrina su misura per lei. Lusingata?
«Definiamo lusinga».
Definiamola.
«Se è abitata dalla vanità o da un’insicurezza di sé, no. Ma se significa che arrivata sul palco capisci la fiducia e responsabilità di cui sei stata investita per affrontare una macchina come questa, allora sì. Ho pensato: “Bello, a questa età una cosa che non ho mai fatto”. E mi sono buttata: come un bravo fornaio che dal pane è passato al panettone».
Nessuna esitazione, dunque?
«Quando mi propongono progetti così, son donna di facili costumi: dico subito sì. Che noia perdere tempo nei corteggiamenti. A questa età, naturalmente».
In passato ha detto di sé che ballava come una grulla. Anche dopo “Frida”?
«Confermo. Sono un’anziana soubrette che accenna qualche passo, cercando di non andare fuori tempo e facendo i conti con la sciatica. Gli altri son belli e bravi, io tenera».
È la prima volta che la morte entra nel suo lavoro?
«È argomento che avevo abbastanza indagato per Venere Nemica, lo spettacolo che riprenderò dopo Frida: la dea abbandona l’Olimpo per vivere a Parigi, innamorata degli umani proprio per la loro mortalità che rende tutto così urgente, ogni volta tutto nuovo e irripetibile, proprio perché con un limite temporale. È invece così noioso vivere in una bolla di eternità, senza attese o desideri, né illusioni o amori».
Alla propria morte pensa mai?
«La maggior parte della vita è trascorsa: è quasi ovvio cominciare a farlo. Penso che sono stata fortunata: ho amato e sono stata amata, ho avuto tante cose belle, forse qualcosa potevo giocarmelo meglio, ma alla fine il bilancio è in positivo. In Misura contro misura di Shakespeare c’è un monologo che spiega bene come ci si dovrebbe porre sull’argomento: abbiamo paura della morte, quando invece è la sola che allontana finalmente e definitivamente dolore, perdite e fallimenti».
Sulla lapide cosa metterebbe?
«Sulla propria tomba non si può mentire: niente foto, nome, cognome e data. E basta. Ma forse non avrò neppure bisogno di una lapide: mi farò cremare e chiederò che le ceneri vengano buttate nel Mugnone, fiume del mio quartiere. Meglio non lasciare luoghi della devozione, ma restare nella quotidianità degli affetti e nella memoria delle persone».
Che data, 1967 o 2010?
«La prima è una data più fondamentale e definitiva (è quella di nascita, ndr). La seconda, una specie di rinascita e un’integrazione, importante ma non definitiva (l’anno della prima apparizione di Drusilla, ndr)».
Nel binomio Eros e Thanatos, come è messa sul fronte dell’amore?
«Non sono innamorabile. Dopo anni in cui lasciavo spazio al sentimento e all’istituzione, all’idea di un compagno, alla condivisione di esistenze ed esperienze, ora non c’è più ricerca del desiderio, della seduzione o del voler piacere. Ora conta il mio lavoro. E l’amore lo trovo in altri luoghi che non siano l’innamoramento o la coppia: nelle vecchie amicizie e nei giovani incontri, o dietro le quinte dove mi perdo ad ammirare la bravura dei miei giovani colleghi».
Ha detto: “Questo spettacolo mi ha risvegliata in un momento in cui mi ero un po’ assopita”. Dopo 15 anni con Drusilla significava forse una certa stanchezza?
«Innanzitutto è impegnativa fisicamente. Non è un geometra del catasto che veste una giacchetta brutta, scarpe di vacchetta e calzini tortora. È personaggio che è stato molto in prima fila perché, suo malgrado, ha avuto un ruolo sociale. E se invece vivi un momento in cui non lo senti? L’artista non deve esserci a tutti i costi. Anche per questo ho diradato quasi del tutto la mia presenza in tv. Quando accaduto, mi ha fatto capire che il mio lavoro aveva un senso. Quindi era indispensabile oltre che piacevole un piccolo riposo per ricaricarmi di nuove cose da dire».
La tv le ha dato grande notorietà: Sanremo con tanto di monologo (ingiustamente relegato a notte fonda) e poi l’ambizioso “Almanacco”. Dopo di che stop: troppo divisiva e quindi rimossa?
«Il “boicottaggio” sanremese alla fine non servì, il messaggio arrivò: li perdoniamo (ride, ndr). Alla tv devo molto, lo ribadisco. Ma cavalcare l’onda della visibilità per pure voracità del successo, va contro i miei principi. Malgrado il modo in cui mi propongo, non sono imbevuta di vanità. Meglio sottrarsi. Quindi: non sono stanca, ma in fase sottrattiva, desiderosa di novità».
Che trova a teatro?
«Luogo rigenerativo e della purificazione. Con il pubblico hai un contatto vero sera dopo sera, costretta a dare sempre il meglio. È il lusso che ci si concede da anziani: non è che devi arrivare per forza a Hollywood...».
Si è resa conto di quanto assomiglia a Carmen Dell’Orefice?
«Un giorno l’ho vista è mi sono chiesta: “Chi è questa vecchia? Di certo una famosa...”. Sconosciuta nella versione agé, per me lei la bambina di 12 anni di una foto di Irving Penn che invece ben conoscevo. Il mio aspetto non ha modelli predefiniti, fuggo lo scopiazzo, anche se deve molto a certe aristocratiche scozzesi dai capelli non tinti e i lunghi piedi anglosassoni».
Inevitabile: che fine ha fatto Gianluca Gori?
«Spende i soldi che io guadagno. Qualche rigurgito artistico ce l’ha ancora e io glielo concedo. Ma i miei estratti conto parlano chiaro: prosciugati in maglioncini inglesi».
Ha interpretato un “Histoire du soldat” diretta da Beatrice Venezi. Ha qualcosa da dire sulla recente polemica?
«Avrei, sì, ma non qui, non in modo sbrigativo. E non solo su lei. Ma sui tanti altri episodi figli di un clima che mi fa molto arrabbiare».