La Stampa, 16 novembre 2025
Intervista agli Inti-Illimani
Doveva essere un tour di 10 giorni, finì per trasformarsi in un esilio durato 15 anni. L’11 settembre 1973 Jorge Coulón si trovava sulla cupola di San Pietro insieme agli altri Inti-Illimani. Da una settimana erano arrivati in Italia per la loro prima tournée in Europa. «Quella mattina, da bravi sudamericani, andammo a visitare il Vaticano – racconta –. Eravamo sul Cupolone, quando ci raggiunse trafelato un ragazzo della Federazione giovanile comunista: “In Cile c’è stato un colpo di Stato"». Il tour si trasformò in un esilio ultradecennale concluso solo nel 1988. 27 anni dopo, Jorge Coulón è nuovamente tornato in Italia insieme al fratello Marcelo per raccontare anche quella storia in uno spettacolo, In viaggio con gli Inti-Illimani, scritto dal cantautore Giulio Wilson e dallo scrittore Federico Bonadonna, e nei teatri fino al 22 novembre.
È vero che a suonare, all’inizio, eravate in quindici?
«Se è per questo, nel ’66, prima della nascita ufficiale, eravamo pure di più. Volevamo fare una specie di orchestra andina, poi però l’entusiasmo in molti scemò: più che un’orchestra, sembravamo un gruppo di protestanti evangelici».
Il successo arrivò prestissimo.
«A Santiago eravamo praticamente l’unico gruppo che suonava quel genere di musica. Nell’agosto del ’67, ci invitarono a una celebrazione del giorno nazionale della Bolivia. Furono loro a battezzarci Inti-Illimani: in lingua aymara, “sole della montagna sacra”».
Funzionò. Iniziaste a suonare ovunque, anche in Vietnam.
«Un Paese raso al suolo dalla guerra. Al concerto di Hanoi c’erano cinquemila persone: non applaudivano, ridevano. Pensavamo che ci prendessero in giro, poi ci spiegarono che nella loro cultura, per apprezzare qualcosa, non si battono le mani, si sorride».
Poco dopo, nel settembre ’73, arrivaste in Italia. Come reagiste alla notizia del golpe?
«Con incredulità. A differenza di molti altri Paesi latinoamericani, la nostra generazione in Cile era nata e cresciuta in democrazia, per noi quella spirale di violenza era inimmaginabile».
Tra quelli che lo intuirono subito in Italia, ci fu il dirigente del Pci Giancarlo Pajetta.
«"Un golpe con queste caratteristiche non è fatto per fallire”, disse incontrandoci subito dopo. Non volevamo credergli. Fu duro ma anche paterno, proponendoci di restare qui».
Accettaste subito l’invito?
«All’inizio pensammo di andare a Berlino Est: eravamo venuti in Europa grazie a loro. Ma fu proprio Pajetta a insistere: “Meglio se restate qui"».
La stupì che un comunista vi consigliasse di restare in Italia piuttosto che nella Ddr?
«Pajetta era molto lucido, come molti comunisti italiani. Ebbe ragione: ci avete inondato di affetto».
Quando capiste che non sareste tornati in Cile?
«Per tre anni vivemmo a Genzano di Roma con le valigie pronte. Furono le nostre compagne a farci capire a poco a poco che la vita qui non sarebbe stata provvisoria».
Proprio tre anni dopo il golpe, nel ’76, l’Italia vinse la sua prima Davis, accettando di disputare la finale in Cile.
«Dopo un confronto in radio con Nicola Pietrangeli, scrissi un articolo sull’Unità in cui mi permettevo di suggerire di non andare: non tanto per la partita, ma perché sarebbe stata disputata all’Estadio Nacional, che fino a poco prima era stato un campo di concentramento in cui il regime aveva consumato crimini terribili».
Vi risposero?
«La federazione del tennis inviò una lettera: formale, circostanziata, in cui assicuravano che sarebbero stati molto rispettosi. Insomma, le solite cose».
Rientraste in patria solo nel 1988, non prima di aver contribuito a consacrare una delle più note canzoni sudamericane: El pueblo unido jamás será vencido.
«Era nata prima del golpe, grazie a Sergio Ortega, ma fu dopo che esplose ovunque, non solo in Italia».
Come scopriste che potevate tornare in Cile?
«In aeroporto a New York, durante uno scalo dopo un concerto in Messico. Ascoltammo Pinochet annunciare in tv che gli esiliati potevano rientrare. Arrivammo a Roma, cancellammo tutti gli impegni e salutammo con un concerto a Piazza Farnese sotto la pioggia».
L’accoglienza a Santiago?
«Ad aspettarci in aeroporto c’erano più di 10 mila persone. Ci misero su un autobus, c’era gente anche sul tetto. Andammo a suonare in una delle “poblaciones”, le favelas cilene. Al primo concerto eravamo in 300 mila».
E il ritorno alla quotidianità?
«Difficile. Per due ragioni: il Cile era cambiato più di quanto noi pensavamo, e anche noi eravamo cambiati con lui; e poi c’era un sentimento, a volte amplificato in modo strumentale, di chi immaginava le persone costrette a restare fuori dal Paese come gente che aveva vissuto un esilio d’oro».
Come reagiste?
«Pensammo che la cosa più saggia fosse ascoltare. Evitavamo di raccontare delle tournée, rimanemmo in silenzio per anni».
Oggi il Cile ha fatto pace col proprio passato?
«A parole sì, ma in fondo no. Pensi alle elezioni di oggi: ci saranno tre candidati di destra e di estrema destra, che rivendicano o non condannano il golpe».
Correrà anche Jeannette Jara, la prima comunista a capo di una coalizione di centrosinistra.
«Brava, preparata, ha ottenuto il suo successo con grandi sforzi e determinazione. Arriverà al ballottaggio, il problema sarà quello che accadrà dopo».
Come sta la democrazia oggi?
«Non benissimo, né in Cile né nel mondo: è sempre più funzionale al sistema economico che al benessere della gente».
Ha inciso anche l’elezione di Trump?
«Un disastro. Quella con Biden è stata una sfida tra il peggio e il meno peggio. Quando gli Stati Uniti si dimenticano di noi, stiamo molto meglio di quando ci guardano».
E l’Europa?
«Speravamo fosse un albero in grado di offrirci con la sua ombra ristoro, invece è stata una delusione. Eppure sarebbe forte abbastanza da poter giocare il ruolo di difensore della democrazia».
Per riuscirci servono più armi o più sanzioni?
«Niente armi e niente sanzioni: aiutano più i sanzionati che i sanzionatori».
Cosa ci vuole allora?
«La fiducia nel pueblo unido. I problemi d’oggi non li risolverà né Elon Musk né l’uomo della provvidenza. Se il mondo si salverà, si salverà comunitariamente».