La Stampa, 15 novembre 2025
Pier Giorgio Bellocchio: "Impossibile raggiungere mio padre ma oggi ho fatto pace con me stesso"
Non è stato semplice essere figlio di Marco Bellocchio e nemmeno scegliere di fare due mestieri, l’attore e il produttore, «in un Paese come il nostro, in cui essere eclettici non è ammesso, perché sembra sempre che fare una cosa tolga all’altra». Pier Giorgio Bellocchio, 50 anni, figlio del grande regista (che per tutta l’intervista chiama Marco) e dell’attrice Gisella Burinato, è riuscito nelle varie imprese, forse perché, come dice lui stesso, «sono un uomo fattivo, ma non un campione di razionalità», e forse anche perché ha saputo fare tesoro di esperienze diverse e contrastanti: «Mia madre viene da una famiglia pragmatica, che ha portato avanti attività commerciali, legate al rapporto con il pubblico. È ovvio che tutto questo si sia andato a unire e a scontrare con una dimensione completamente diversa, quella della famiglia Bellocchio. Questo fa di me la persona che sono, concreta, ma anche abituata a muoversi seguendo pancia e cuore più della testa».
Ha iniziato, piccolissimo, come attore, poi è diventato produttore. Come mai?
«Sono due mestieri differenti, che non hanno un nesso diretto. Ho cominciato a recitare pensando di fare l’artista, amo farlo, e forse è quello che farei sempre. Quello che invece non amo è la vita degli attori, non mi si addice, non mi fa stare bene. Ho recitato in modo continuativo, ma non ho mai raggiunto quel picco che ti mette fra i “top ten”. E allora bisogna essere coscienti, vedo tanti colleghi della mia età frustrati e rancorosi, si guardano intorno e pensano di aver subito dei torti… ecco, io quella dinamica lì la trovo insopportabile, non ci volevo vivere».
Del film di Daniele Vicari Ammazzare stanca. Autobiografia di un assassino (dal 4 dicembre nei cinema) è sia produttore che interprete. Fa il colonnello Becker, un uomo di legge che insegue la verità e cerca di snidare il malaffare. Che cosa l’ha attirata?
«Becker è il rappresentante delle istituzioni, un personaggio che, per il protagonista, il figlio del boss della ’ndrangheta Antonio, interpretato da Gabriel Montesi, simboleggia la possibilità reale di cambiare vita. Alla fine della storia Becker raggiungerà il suo intento. È stato un ruolo affascinante, corrisponde ai personaggi che cerco in questo momento della carriera. Personaggi che mi permettano di mettermi alla prova, che abbiano un loro peso».
Qual è la differenza sostanziale tra fare l’attore e fare il produttore?
«Diciamo che, in ambito cinematografico, fare l’attore significa pensare a se stessi, mentre fare il produttore vuol dire pensare agli altri».
È stato, anni fa, produttore dei film di suo padre, poi non più. Come è andata?
«Abbiamo fatto una scelta, il rapporto tra un produttore e un regista offre molti spunti di conflittualità, c’è stato un momento in cui abbiamo deciso di comune accordo che era meglio circoscrivere la nostra collaborazione ai casi in cui lui fa il regista e io faccio l’attore».
E quando è così, come va tra di voi?
«Bene, abbiamo un rapporto arricchente, basato sull’assoluta sintonia. Il legame tra me e Marco è abbastanza unico e singolare, risolto forse no, perché tra padri e figli è molto difficile che si arrivi a questo traguardo, però sicuramente non c’è più quella rabbia che un figlio, in genere, prova verso il proprio genitore. Oggi il nostro è un rapporto paritario, lui fa il suo percorso e, quando capita che mi chieda di interpretare un personaggio, è un momento straordinario, un’occasione per passare del tempo insieme».
In passato vi siete visti poco?
«I miei genitori si sono separati quando ero piccolo, la mia è stata l’infanzia di un figlio di genitori divisi negli Anni 80, quindi abbastanza complicata. Il legame con mio padre è cresciuto molto quando sono diventato adulto e abbiamo cominciato a lavorare insieme. Fare cinema è stato il nostro terreno di confronto».
Avere il padre-leggenda è sempre pesante. È stato così anche per lei?
«In passato sì, lo è stato, anche quando Marco non era ancora quello che è oggi. Marco è quel fenomeno per cui tu continui a progredire, pensi “prima o poi lo staccherò” e invece lui è sempre più avanti di dieci lunghezze. Insomma, bisogna farsene una ragione. Però, in questo momento, non sento più nessun peso, al massimo un po’ di noia, ogni tanto. Credo di essere riuscito faticosamente a costruirmi un’identità autonoma. È stato un cammino, e Marco un insegnamento».
In che senso?
«Se Marco, a 86 anni, è il regista più vitale, creativo, e giovane del panorama italiano, questo deriva dal percorso che ha fatto. Per essere come è oggi, dopo 60 anni di carriera, ha lavorato, si è messo sempre in discussione, a livello professionale e personale, non ha mai accettato di ripetersi, ha perseverato nelle sue idee, anche quando tutti gli dicevano che erano sbagliate. Altri si sono fermati, seduti, ripetuti. Lui no, ha continuato a fare sempre scelte molto verticali, che gli hanno dato ragione».
Lei è sposato, ha avuto le sue figlie a 33 anni, nel complesso da un’idea di saggezza e solidità. Suo padre, invece, è, da sempre, un modello di ribellione, un uomo sempre alla ricerca, che ha cambiato spesso vita. Non è semplice confrontarsi con un genitore del genere.
«No, non lo è, anzi, è estremamente complesso. Però Marco ha avuto un grande mutamento, che coincide con la nascita di mia sorella Elena, è stato un punto di svolta, che lo ha cambiato in tutto, profondamente, e in meglio, anche nei miei confronti. Dico sempre che c’è un Marco prima della nascita di Elena e un Marco dopo. Il Bellocchio scontroso, scorbutico, difficile da approcciare, non c’è più. Oggi Marco ha raggiunto un equilibrio nel quale riesce dare il meglio di se».
Resta un regista esigente?
«Sì, è esigente, ma non è un rompiscatole, è uno che difficilmente accetta un compromesso, ma merita di essere seguito, perché i risultati gli danno sempre ragione. Può anche essere feroce e, quando esonda, lo fa senza porsi troppi problemi, insomma, non ha peli sulla lingua».
Quali sono i ricordi più lontani di suo padre regista?
«Le riprese di Vacanze in Val Trebbia, avevo 5 anni, ho in mente le canoe, il fiume, la grotta, un clima estremamente familiare e io che non capivo nemmeno che si stesse girando un film. E poi Salto nel vuoto, negli studi della De Paolis, a Roma, io che a 7 anni mi ritrovo a giocare nel cortile con Anouk Aimee e Michel Piccoli, naturalmente senza sapere chi fossero. Sono quelli i ricordi più forti».