Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  novembre 15 Sabato calendario

Dal rapimento del duca al giallo di Adinolfi la saga infinita della Banda della Magliana

Quello di Adinolfi è solo l’ultimo dei grandi misteri della Banda della Magliana. Il quartiere della Magliana, nella zona Sud di Roma, nato nel secondo dopoguerra tra l’Eur e San Paolo, prende il nome dall’omonimo torrente, che lo bagna prima di sfociare nel Tevere. Un posto dimenticato e abbandonato, densamente abitato, lontano dal centro e senza servizi, senza plessi scolastici e con poco verde. Palazzi enormi e strade dissestate e sterrate. L’uomo che fonda la banda però non viene da qui. Franco Giuseppucci è un piccolo delinquente di Trastevere, che aveva lavorato per qualche tempo nel forno di famiglia e che per questo era conosciuto come «il fornaretto».
Aveva una roulotte sul Gianicolo, dove nascondeva la refurtiva che gli lasciavano altri malviventi. La sua vita cambiò quando gli rubarono la macchina con una borsa piena di armi che appartenevano a Enrico De Pedis detto “Renatino”. Scoprirono che dietro a quel furto c’era Maurizio Abbatino della Magliana e andarono da lui per avere indietro il maltolto. Ma anziché litigare, tornò a casa con una stretta di mano: «Non facciamoci la guerra, prendiamoci il posto dei marsigliesi e conquistiamo Roma». Ci volevano i soldi per cominciare a farsi conoscere. Cosa meglio di un sequestro di persona? Giuseppucci aveva già identificato la vittima: il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, 66 anni, marito di Isabella Perrone, la cui famiglia aveva appena venduto il Messaggero. Giovedì 7 novembre 1977 scattò il rapimento. Le trattative per il riscatto furono infinite. Loro chiedevano 10 miliardi, e gli offrivano invece 200 milioni.
Il telefonista li minacciò dicendo che, se non pagavano, il duca avrebbe fatto la fine di Pallino, un cavallo di proprietà del Grazioli ucciso anni prima. La famiglia cedette. Giulio Grazioli consegnò i soldi. Gli fu detto di tornare a casa e aspettare una loro chiamata su come andare a prendere il duca. Ma quella telefonata non arrivò mai. Era stato ucciso perché aveva visto in faccia uno dei suoi carcerieri. E la banda invece poté cominciare a godersi quella montagna di soldi. La storia comincia nel sangue. E continua così.
Roma criminale aveva trovato dei capi e nulla sarebbe stato più come prima. I loro nomi sono diventati famosi: Abbatino, Antonio Mancini, Renzo Dansei, Nicolino Selis, Danilo Abbruciati, Enrico De Pedis. Da poveri borgatari a imperatori della mala, che uccidevano chiunque osasse mettersi contro. Come Franco Nicolini, detto Franchino, ucciso da 7 persone della banda il 25 luglio 1978. Diventarono padroni del traffico di droga. Soldi a palate e accordi con mafia, camorra, ‘ndrangheta, servizi segreti, terrorismo nero e loggia massonica P2. Una holding criminale, composta da Operaietto, Accattone, Sorcio, Zanzarone, Palletta, Gianni er roscio. Enzetto, Killer... e poi loro, i capi, Crispino, Renatino e Negro, il nuovo soprannome di Fornaretto. Avevano in mano tutto: avvocati, uscieri del tribunale, diversi membri delle forze dell’ordine.
Anche Giuseppucci venne ucciso, e il gruppo si fortificò puntando ad ammazzare il clan dei Pesciaroli che avevano fatto fuori il capo. Selis invece fu assassinato perché voleva diventare il leader. Ma oltre alle guerre di mala e a quelle interne, il gruppo fu coinvolto negli scandali e nei misteri più torbidi del nostro Paese tra la fine degli Anni 70 e i primi 80: dal sequestro di Aldo Moro (uno dei nascondigli usati dalle Brigate Rosse era nel quartiere Magliana e il falso comunicato numero 7 del lago della Duchessa era stato scritto da un falsario vicino alla banda), alla strage di Bologna (per via di un borsone con le armi provenienti dal deposito della banda ritrovato nei pressi della stazione), dall’omicidio di Mino Pecorelli (l’arma che uccise il giornalista proveniva anch’essa dal deposito del gruppo) all’attentato al vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone (Danilo Abbruciati gli sparò rimanendo poi ucciso da una guardia giurata che aveva assistito alla scena).
Senza dimenticare i legami intensi fra Giuseppucci e i Nar di Fioravanti, con scambi di favori reciproci fra le parti e soprattutto il sequestro di Emanuela Orlandi il 22 giugno 1983, quando il gruppo criminale fu al centro della seconda indagine in base alle dichiarazioni rese dalla compagna di Enrico De Pedis, secondo la quale la banda avrebbe organizzato il rapimento su commissione. La scomparsa del giudice Paolo Adinolfi sarebbe l’ultimo capitolo di questa storia criminale. Appartiene alla parte finale di quella striscia di sangue e violenza, che aveva cominciato a inaridirsi con la guerra interna e i primi pentimenti.