la Repubblica, 16 novembre 2025
Bianciardi e la dura legge del fuorigioco
Un fratello nato prima, che ha trovato le parole, l’umore e l’umorismo per dirlo. Per chi scrive di sport, di umanità, di strade storte, per chi ama i dannati, anche non belli. Luciano Bianciardi. Uno che guardava dal basso e interpretava dall’alto. Il bavero rialzato del cappotto. Soprattutto quello nella famosa foto sulla panchina. Come Albert Camus, Hugo Pratt, Lino Ventura, Marlon Brando, Jean Gabin. Quasi che nelle loro esistenze soffiasse sempre vento contro. Anche ai giardinetti di Milano. Lui che traduceva gli americani scossi: Jack London, i Tropici di Henry Miller e L’inverno del nostro scontento di John Steinbeck, ma forse avrebbe potuto allargare anche alle altre stagioni. E chissà come avrebbe mandato a quel paese i raffinati della letteratura sportiva, quelli del clean sheat, step on foot, silent check, toilet-break. Per non parlare dello story-telling.
Bianciardi è anche quello che si fa fotografare da Giorgio Lotti a letto in pigiama mentre legge il giornale (e sversa la cioccolata calda), molto prima che arrivasse il clic di Annie Leibovitz. È quello che precorre tutto: l’inutilità dei ritiri nel calcio, la demonizzazione del sesso, l’arroganza di chi vive sulle fatiche degli altri, lo sport come oppio dei popoli, che oggi si traduce con entertainment. Mezzo secolo dopo la sua morte (14 novembre ’71) siamo ancora qui a discutere se il fuorigioco sia antipatico anche a noi. Non ci siamo mossi un metro dall’area di Bianciardi, ci dispiace che non abbia mai incontrato l’allenatore Giovanni Galeone, che le utopie calcistiche le metteva in campo, un altro a cui rimproveravano le femmine e l’alcol («Come se fosse degradante amare le donne e capire il vino e viceversa»).
Ha scritto Gianni Brera che gli aveva affidato una rubrica di lettere sul Guerin Sportivo: «Bianciardi galoppava sui quesiti sportivi come un ardito cosacco sui fiori della steppa». Aveva detto no al Corriere di Indro Montanelli, ma sì agli amici e alle riviste un po’ così, impegnate sui temi delle libertà civili e sessuali. Da recensore tv con Sergio Saviane (L’Avanti), anticipò di tre anni Umberto Eco sul fenomeno Mike Bongiorno e anche Pier Paolo Pasolini sulla critica al boom economico, anche se non partiva dalla scomparsa delle lucciole e restò sempre laterale al Pci.
Non voleva essere un organico né in organico, non se la sentiva. Rileggetevi l’intervista a Manlio Scopigno nell’anno in cui il Cagliari con Gigi Riva vince lo scudetto e i Beatles si sciolgono (era il ’70). Whisky contro vodka, uno che suona il piano e l’altro il violoncello, Hegel, Gershwin, Guttuso, lo scrittore che consiglia all’allenatore Il lamento di Portnoy di Philip Roth, ma accidenti l’altro l’ha già letto. Gli tocca pure dare ragione a Scopigno che gli chiede: «Ma se il suo editore la mandasse a scrivere libri a Milanello, dormendo in camera con Giovanni Arpino, lei non crede che a fine settimana lo ucciderebbe?». L’ironia, il distacco, l’empatia. La visione storica sul Risorgimento e su Garibaldi, la pietà verso chi soccombe, la fierezza di chi ci prova, l’altra faccia delle guerre a cavallo come nei dipinti di Giovanni Fattori, altro toscano, dove c’è sempre uno staffato, un ferito, un vinto. Ma bisogna guardare da quella parte lì. E questo molto prima che Alessandro Barbero venisse a raccontarci la storia in tv.
Bianciardi è stato l’onda che spazza conformismi culturali e dolce vita fasulla. I suoi eccessi, non nelle parole, ma nello scodinzolare troppo davanti ai bicchieri sono stati spesso sottolineati, come la sua morte a 49 anni per cirrosi. Aveva sempre sete. Ma come diceva Gianni Mura: non si beve per dimenticare. Semmai per ricordarsi chi siamo e chi un giorno abbiamo sognato di essere. Oggi con una certa retorica (che non esiste sugli astemi) sembra che quasi tutta la letteratura del Novecento debba essere smascherata non per i suoi traumi, la sua creatività e capacità di rompere gli schemi, ma per il suo tasso alcolico. Faulkner, Fitzgerald, Hemingway, Kerouac, Parker, Chandler, Joyce, Carver, Cheever, Lowry, Bukowski. Saranno stati pure ubriachi, ma quanta forza, grazia, sincerità. Lasciamo stare Ernest: «Un uomo intelligente a volte è costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti». E non sarebbe male ricordare che Raymond Chandler, addio nostro amato, ci mise cinque anni per scrivere la frase: «Attraversò la strada, arrivò al marciapiede opposto e l’ombra del telone sul bar gli tagliò la faccia in due». Fino ad allora gliela censuravano, troppo letteraria.
Bianciardi si è mischiato con tutto: letteratura, giornalismo, traduttore per Feltrinelli, prima insegnante, soldato, bibliotecario, laureato a Pisa con una tesi su John Dewey, padre dell’attivismo pedagogico dove s’impara perché si fa. Ha lasciato Grosseto, la sua Kansas City, per Milano dove si sentiva accettato nel bar degli artisti (pittori, cantanti, poeti, fotografi) e rifiutato, anzi etichettato da quell’industria culturale che ne aveva fatto un santino della scapigliatura. «Finirà che mi daranno uno stipendio mensile per fare la parte dell’arrabbiato italiano». E basti pensare all’attuale intrattenimento culturale dove si procede per categorie: il trasgressivo, il tradizionalista, lo snob, il populista, il professore e il primo che passa. Troppo per Bianciardi, dispari e fuori dalle righe, già riottoso e disilluso. Nessun miracolo a Milano, non si può volare sulle scope, la vita resta agra. Ma chi celebra Bianciardi come uomo e scrittore vintage, come un albero secco, sbaglia, sono tutti figli e frutti suoi: da Beppe Viola a Gianni Mura, da Enzo Jannacci a Rino Gaetano. Un certo modo di pensare (e di preferire) quelli che sgobbano, i poveracci che ci rimettono la vita. Come i 43 lavoratori della Montecatini, uccisi il 4 maggio 1954, dall’esplosione di un pozzo a Ribolla. Provava rabbia e furore, cercava giustizia. Stava con i leoni, non con i cacciatori. Peccato non ci sia stato lui in Cile a raccontare del crollo del tetto della miniera di San José, alle 14.30 del 5 agosto 2010. Sotto, al buio, a 700 metri, tra i 33 minatori sepolti c’era anche Franklin Lobos, 53 anni, ex calciatore. Si mobilitò il mondo, anche la Nasa mandò i suoi consulenti. Le speranze erano poche. Laggiù, decisero di razionare il cibo: ogni 48 ore mangiavano un cucchiaino di tonno sott’olio, mezzo bicchiere di latte e mezzo biscotto. Lobos per sopravvivere si concentrò sul futbol. Il diciassettesimo giorno grazie a una sonda arrivò la notizia che erano tutti vivi.
Alcuni vecchi compagni di squadra di Lobos presero le ferie e andarono all’accampamento per seguire il loro sventurato capitano. Il giocatore David Villa, figlio e nipote di minatori, mandò la maglia del Barcellona con la scritta: Animo mineiros. Tra i soccorritori Manuel González si offrì volontario per scendere nella gabbia di ferro. Voleva salvare Franklin, avevano giocato insieme, era stato il suo idolo. Nella notte del 13 ottobre, 69 giorni dopo il crollo, il primo dei minatori fu riportato in superficie. Lobos usci per 27esimo. Gli misero in braccio la sua bambina e un pallone. Ci vollero 27 ore per riportare in superficie tutti, uno alla volta. Diego Maradona seguì in tv la diretta e disse che era un miracolo realizzato da uomini uniti. Questa carezza Bianciardi se la meritava.