Corriere della Sera, 16 novembre 2025
Intervista a Renzo Arbore
Renzo Arbore, qual è il suo primo ricordo?
«Il Duce. Prima della guerra andavamo a Riccione, unica famiglia meridionale. E quando arrivava questo signore vestito di bianco che tutti applaudivano, mio padre, col bambino in braccio, insieme agli altri ripeteva: il Duce, il Duce».
A Riccione Mussolini perse il costume mentre faceva il bagno.
«Rimase in acqua e chiedeva: qualcuno ha un giornale? Voleva coprirsi. Ma chi ha un giornale in acqua?».
Della guerra cosa ricorda?
«L’odore. L’odore delle micce che si mettevano sulle candele per fare luce. La fame si combatteva con pane e zucchero, mancava pure l’olio».
A Foggia la sua famiglia viveva a Palazzo Arbore.
«Che era utilizzato anche come rifugio. Ricordo i bombardamenti, le “fortezze volanti”, le preghiere che si dicevano e che aumentavano di volume per cercare di coprire il rumore: Pater Ave Gloria… Papà mi incaricava di intrattenere le persone con La bela Gigogin e le canzoncine che mi aveva insegnato la mia balia friulana: “La bela pupa a la finestra l’è tutta incipriata/ la dis, la dis la dis che l’è malada per non mangiar polenta/ se vol, se vol se vol aver pazienza/ lassala maridar…”».
Poi arrivarono gli americani.
«Eravamo sfollati a Chieti, Foggia era stata distrutta. Lì, dalle inferriate di un vecchio ristorante, ho visto gli ultimi tedeschi andare via. A un certo punto ho sentito un clangore: erano gli americani con la musica delle radio sulle jeep».
L’innamoramento per l’America viene da lì?
«Tornati a Foggia, abbiamo trovato il Palazzo sequestrato dal vescovo. Di fronte a noi, a Palazzo Frattarolo, c’era un circolo ricreativo americano dove suonavano per gli ufficiali Benny Goodman e Stan Getz. Lì dietro c’erano i faticatori, che mentre ricostruivano intonavano canzoni napoletane antiche».
Il jazz e la musica napoletana: la sua vita. Nella sua nuova autobiografia, «Mettetevi comodi» (Fuoriscena), scrive che sognava di essere un artista fin da ragazzo.
«In provincia quando passeggi per il corso incontri lo scappato di casa, il mobiliere, quello che guida la carrozza, l’artista, il primo gay, Mafalda, la bonona della città…».
Chi era?
«Maria Adele Cicolella, proprietaria dell’hotel più importante di Foggia, eletta Miss Daunia».
Fra tutti chi la colpiva?
«Sempre l’artista. Il primo era Umberto, ma si faceva chiamare Humbert, l’inventore del mondo».
La sua scoperta?
«Diceva che due litri d’acqua fredda mischiati a due litri d’acqua calda facevano quattro litri d’acqua tiepida. Così lo soprannominammo l’inventore dell’acqua tiepida. Lì ho imparato l’umorismo goliardico, quello buono però».
È vero che ha pure la laurea in goliardia?
«L’ho presa a Bologna, me l’ha data Umberto Eco, ho anche scritto la tesi. Al pubblico posi un quesito: “Allora non si sarebbe dovuto rompere, che tempo è?”. Non lo sapeva nessuno, nemmeno il magnifico rettore Fabio Roversi Monaco».
Che tempo è?
«Preservativo imperfetto» (Renzo sorride. Siamo nella sua leggendaria casa romana, piena di opere d’arte e cianfrusaglie, foto meravigliose con Mariangela Melato e Monica Vitti e cibo in scatola compresa la carne di coccodrillo).
Con Lucio Dalla eravate amici da bambini.
«A Palazzo Arbore entrava Jole Melotti, sua mamma. La chiamavamo la modista di Bologna, portava in città le nuove tendenze della moda. Io avevo 8 anni e Lucio due, e mentre io intrattenevo il bambino, lei svuotava le valigie e disponeva gli abiti sul tavolo da pranzo per mostrarli a mamma. Mio padre odiava la mamma di Lucio Dalla».
Perché?
«Sapeva che avrebbe speso un sacco di soldi. Pure mia sorella ricorda quegli abiti» (Renzo si rivolge a sua sorella Sabina seduta accanto, dieci anni più piccola, che conferma. Ha la stessa erre del fratello). «Mamma li ha tenuti per tanto tempo, li indossava in casa, erano di maglia, coloratissimi. Anticipavano Missoni».
Da adulti con Dalla vi siete ritrovati.
«E non sapevo che fosse il figlio della modista di Bologna. Ma Lucio, poco prima che morisse, mi chiese: “Tu sei il figlio della signora Arbore?”. “Sì, perché?”. “Mia madre era la signora Melotti”».
Non glielo poteva dire prima?
«Non voleva, anche se lo sapeva benissimo perché la mamma, chiacchierona, gli avrà confidato: “Andavo dalla signora Arbore a vendere i vestiti”».
Mamma era pugliese?
«Ma di origine napoletana, una Cafiero, lontana discendente di Carlo Cafiero. Mio nonno Lorenzo, dal quale ho preso il nome, era un repubblicano, che all’epoca era come dire fuorilegge. Nonna Bianchina invece era bolognese e si definiva un po’ rossa».
E la famiglia di papà?
«Era monarchica, non fascista».
Cosa ha votato la prima volta?
«Monarchico. Mio zio Antonio Pepe fu eletto sindaco di Foggia».
E alle politiche?
«Liberale. Al liceo mi piaceva Gobetti, malgrado il mio professore d’italiano fosse comunista. Quando morì Stalin era a lutto e voleva imporlo pure a tutti noi studenti».
Era l’unico comunista?
«No, c’era pure il mio professore di storia e filosofia, un’ottima persona, si chiamava Gerardo De Caro. Ma un giorno andò da Padre Pio e si convertì: “Ho sentito un profumo di violette…”. Così fondò il Partito cristiano militante».
Lei quando incontrò Padre Pio?
«Avevo 18 anni, conoscevo Corrado, il suo più grande amico, un medico, che amava fargli degli scherzi. Un giorno gli mise una foto di Sophia Loren nel confessionale».
Come andò il primo incontro?
«Corrado fa: “Pio, è arrivato un guaglione, vuole sapere se da grande deve fare l’artista o l’avvocato?”. Risposta: “Facèsse che vòle”. Corrado insistette: “Insomma Pio, non mi hai detto che ha da fa’ l’artista”. E il santo: “Facèsse l’abbucàte”, l’avvocato».
Ci ritornò con Pippo Baudo.
«Padre Pio disse a Pippo: “La verità: sei venuto per curiosità o per fede?”. “Per curiosità”. “Allora vattin”».
Quando si trasferì a Napoli?
«Papà si era laureato in medicina a Napoli, poi era diventato medico chirurgo e odontoiatra. Per due anni aveva lavorato al Vomero con il dottor Gagliardi, suocero di Peppino Di Capri. Quando ho dovuto scegliere l’università, mi consigliò la Federico II».
Ci mise un po’ a laurearsi in giurisprudenza.
«Sette anni, perché cantavo, suonavo il contrabbasso finto e strimpellavo il clarinetto al circolo militare americano USO a Calata San Marco, il sabato e la domenica. Per me era come stare negli Stati Uniti. Una passione che condividevo con il mio amico del cuore Gerardo. Eravamo due finti americani».
Si racconta che per «Tu vuo’ fa’ l’americano» Carosone si sia ispirato a voi.
«È vero. Portavamo i capelli con il taglio crew cut, corto ai lati e dritto in alto, come i marinai. E mettevamo i primi blue jeans. Io indossavo giacche con le spalle strette e pantaloni corti, come Kennedy».
Dove prendeva i vestiti?
«Mi regalavano quelli che lasciavano gli americani nel locale dove suonavo. Altri li andavo a comprare a Ponte di Casanova. Portavo le camicie con il collo tondo: così mi chiamavano ’o prevete, il prete».
Il primo giorno da universitario?
«Un ragazzo di Catanzaro mi affittò una stanza e mi portò a conoscere degli amici: “C’è un olimpionico che dobbiamo salutare, è appena tornato da Roma”. Nella garçonnière abbiamo trovato il campione che aveva preparato un cocomero vuoto pieno di pezzi di frutta. Lo svuotò tutto in un sorso. Era Carlo Pedersoli, Bud Spencer».
Dopo la laurea l’arrivo a Roma.
«Mi presentai in via del Babuino 9, la vecchia sede Rai. Donna Matilde Pepe, la nostra dirimpettaia a Foggia, mi aveva fatto avere una segnalazione da suo suocero, l’allora direttore generale Ettore Bernabei. Però non sapevo cosa fare. In portineria mi accolse una signora elegante, Vittoria, che mi consigliò di presentare una domanda per un concorso da maestro programmatore di musica leggera. Insomma, il dee-jay. “Ma faccia presto, scade alle 12”. All’esame il mio compagno di banco era Giandomenico Boncompagni, aretino. Arrivai primo».
E incontrò Gabriella Ferri.
«La prima sera a Roma. Arrivai con la 500, parcheggiai davanti al bar Rosati. Gabriella mi fermò: “Tu chi sei?”. Io l’avevo già vista in tv con Luisa De Santis, erano Le Romanine. “Devo cominciare a lavorare in Rai”. Lei: “’Nnamo a ballare”. Ci fidanzammo».
Boncompagni che tipo era?
«Io timido e riflessivo, lui un maledetto toscano, intelligentissimo. Quando mi faceva l’occhiolino capivo che aveva in mente qualcosa. Andavamo dal direttore della radio a farci rimproverare per le nostre malefatte. Gianni, mentre parlava con lui, mi strizzava l’occhio. Alla fine uscivamo con l’aumento».
Avete scoperto Lucio Battisti.
«Avevo una storia con una discografica francese, Christine Leroux, la moglie del mago Zurlì…»
Meraviglioso.
«…Christine mi disse: “C’è un ragazzo che suona con i musicisti di Tony Dallara e scrive delle canzoni bellissime”. Io: “Madonna, un altro cantautore”. Lei insistette e le consigliai di farlo conoscere o a Pallavicini o a Mogol».
Però Battisti non cantava.
«Era l’autore delle canzoni dei Dik Dik, dell’Equipe 84. Quando venne a Bandiera Gialla gli dissi: “Lucio, queste canzoni le devi anche cantare”. E lui: “Ma io sono peggio di Giulio”, intendeva Giulio Rapetti, insomma Mogol, che aveva una voce roca, terribile. Presi una chitarra, gliela diedi, e lui intonò Per una lira».
E divenne Lucio Battisti.
«Mi fece ascoltare Dieci ragazze e gli dissi: “È carina, ma sembra un cuore matto dei ricchi, che c’è sul retro?”. C’era Acqua azzurra, acqua chiara.”Io lancio questa”. Lucio non voleva: “Ci rovini!”. Fui irremovibile».
Dopo quattro anni di Per voi giovani fu sostituito. Perché?
«Mi fecero fuori i cattocomunisti. Per voi giovani era seguita da tre milioni di persone ogni pomeriggio. Si era troppo politicizzata».
Alto gradimento, la sua rivincita.
«Dopo essere stato rimosso scazzai con il direttore della radio Giuseppe Antonelli, alla fine mi propose un altro orario per una nuova idea. Corsi da Gianni. Lui: “Facciamo insieme un programma da chiamare “Musica e puttanate”, non ne posso più del 3131”».
Lei propose «Basso gradimento».
«Se fosse andato male avremmo avuto un alibi. Gianni: “Bluffiamo. Chiamiamolo Alto gradimento”».
C’era Mario Marenco.
«Figlio di un colonnello della Guardia di finanza, fidanzato con Laura Antonelli, la ragazzina più bella del mondo, e amico fraterno di Boncompagni. Per me Mario è il più grande umorista mai conosciuto»
Il colonnello Buttiglione esisteva davvero?
«Sì, ma noi non lo sapevamo. Quello vero provava a chiamare in Rai, ma gli attaccavano il telefono in faccia. Fino a quando non telefonò il capo ufficio stampa del ministero della Difesa, pregandoci di cambiare il cognome».
E c’era Giorgio Bracardi. Nel libro lei racconta che quando Mina arrivò in trasmissione lo trovò con le mutande calate.
«Lo faceva sempre. Ma aveva un’altra fissa: Dracula. Metteva i denti con i canini affilati ed entrava negli studi durante le dirette, gemendo come il vampiro. Poi arrivavamo noi con le cape d’aglio e lui si liquefaceva».
Con Luciano De Crescenzo avevate una fidanzata in comune.
«Sì. Lui la vedeva a Napoli, io a Sorrento. Lei diceva: “Vado a Napoli a trovare l’ingegnere De Crescenzo, un tipo così simpatico”. Oppure: “Vado a Sorrento perché c’è Renzo Arbore, un tipo molto simpatico”. Finché parlando con Luciano lo abbiamo scoperto».
L’incontro con Mariangela Melato.
«La vidi al Teatro Sistina, un tipo singolare. E la invitai a casa mia. Arrivò con la sorella Anna. Nacque un’amicizia. Poi una sera dovevo andare a una festa da Agostina Belli. E venne a trovarmi Lucio Battisti».
Se lo ritrovava spesso a casa.
«Vivevo a via Castiglione del Lago, nel mio stesso palazzo abitavano Shel Shapiro dei Rokes, i Primitives ma senza Mal, e il “Califfo”, Califano. Lì stava anche il direttore della casa discografica Ricordi, Alberto Durante. E quindi passavano Ornella Vanoni, i Ricchi e Poveri. Battisti andava spesso a mangiare da lui e da sua moglie Anna, ispiratrice diVoglio Anna».
Come andò quella sera?
«Bussò Lucio, ma dovevo uscire, gli chiesi di accompagnare me e Mariangela. Lui non voleva: “Non vado da nessuna parte, se no mi chiedono di cantare”. “Non lo permetterò”. Si convinse. A un certo punto, a casa di Agostina, prese una chitarra e attaccò: “Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi“(Arbore si commuove). La mia storia con Mariangela è nata lì. Ci siamo amati tutta la vita».
Perché finì?
«Lei si trasferì in America per due anni dopo il successo clamoroso di Travolti da un insolito destino e quando tornò a Roma stupidamente ci siamo lasciati».
È stato un errore?
«Sì».
Come ha incontrato Mara Venier?
«Quando l’ho conosciuta veniva corteggiata furiosamente da Luciano, lui mi ha sempre detto: “Te l’ho servita su un piatto d’argento”».
Ma non era vero.
«Mara aveva una simpatia per me. Doveva andare a Foggia per trovare una badante, abbiamo fatto il viaggio insieme ed è nata una bellissima storia d’amore durata anni. Abbiamo girato il mondo, vestendoci come dei matti».
Come mai è finita?
«Mara ha avuto un successo clamoroso, io ero in giro per il mondo con l’Orchestra Italiana…»
Ma è vero che avete incontrato Craxi che stava scappando in Tunisia?
«Ero amico di Bettino dai tempi in cui stavo con Mariangela, abitavamo di fronte all’Hotel Raphaël. Quando ci incontravamo lui chiedeva: “Vuoi il Tg2? Vuoi Rai2?”. Io: no, no. Dopo il lancio delle monetine, ci telefona Paola Micara: “C’è Bettino che vi vuole salutare, domani parte. Scendete?”. Io e Mara siamo scesi. Craxi ci disse: “Vado via e non torno perché tengo innanzitutto alla mia libertà”».
Ha sfiorato la P2 e le Brigate Rosse.
«Mio padre si ammalò di tumore. Boncompagni mi disse: “C’è un dottore che fa la televisione, molto bravo”. Gli portai le radiografie di papà, scoprii dopo che era uno dei reclutatori della P2».
Provò anche con lei?
«In quel momento per me era una persona importante. Ho sempre pensato che se mi avesse parlato della P2, con tutti i miei amici che ne facevano parte: Tassan Din, Angelo Rizzoli, Giampaolo Cresci, Maurizio Costanzo... c’era pure Claudio Villa».
Avrebbe detto di sì?
«Avrei detto di no solo perché c’era Claudio Villa (Arbore sorride). E comunque non mi ha mai chiesto niente».
Le Br invece?
«All’Altra domenica con Ugo Porcelli decidemmo di prendere le telefonate dei telespettatori. Chiamai Andrea Barbato, direttore del Tg2: che faccio se chiamano le Br? “Falli parlare!”».
Non è mai successo.
«No, ma un giorno vennero a casa mia un fotografo e la sua assistente, una bella ragazza. Li invitai a colazione, e mentre mangiavamo lei domanda: “Ma non mi riconosci?”. “Chi sei?”. “Adriana Faranda. Quando stavamo in clandestinità abbiamo pensato di chiamare L’Altra domenica, ma non ci siamo riusciti e abbiamo lasciato perdere”».
All’Altra domenica fece debuttare Benigni.
«Un giorno andai a prendere un premio con Corrado in un paesino vicino Roma. C’era questo diavoletto che mi zompava attorno: “Renzo, Renzo!”. A me mancava un comico toscano, così gli dissi di venire a casa mia per provare qualcosa».
Come andò?
«Gli chiesi di fare il critico cinematografico. Lui si mise di fronte a me, su una poltrona e improvvisò su La febbre del sabato sera. Alla fine mi fa: “Vabbé, proviamo”. E io: abbiamo già provato, adesso vai in onda».
Quarant’anni fa, Quelli della notte.
«Andai da Minoli: “Voglio fare una trasmissione notturna, Il Tiratardi”. Lui: “Non si può, alle 23.15 abbiamo il monoscopio. Però portami un’idea”. Sono tornato da lui con il titolo, Quelli della notte. E la sigla, Ma la notte no. Quaranta personaggi nuovi, quaranta facce nuove, tranne la mia e quella di Bracardi. Frassica, Ferrini, Marisa Laurito, Simona Marchini, Andy Luotto, Pazzaglia, Roberto D’Agostino… Il successo ci esplose in mano».
Quando telefonò Paolo Guzzanti fingendo di essere Pertini ci ha creduto o sapeva che era uno scherzo?
«Lo sapevo, però finsi meravigliosamente. Il giorno dopo mi chiamò il Quirinale: il presidente non ha mica telefonato…».
A Sanremo arrivò secondo con Il clarinetto.
«Forse avevo vinto, però era una canzone un po’ osé per il Festival».
Poi «Indietro tutta!».
«Alla fine mormorai in diretta: mi rivedrete tra vent’anni. Una stagione era finita».
E comincia l’Orchestra Italiana.
«Abbiamo girato il mondo: siamo partiti da Napoli e abbiamo fatto 1.600 concerti».
Le manca non aver avuto figli?
«Sì. Però ho accanto mio nipote. E se avessi avuto figli e grandi amori come quello con Mariangela, forse tutte queste imprese non le avrei mai fatte».