corriere.it, 15 novembre 2025
Intervista ad Andrea Roncato
«Loris Batacchi, capo ufficio pacchi, padre (ignoto) del figlio di Mariangela Fantozzi: il mio personaggio è diventato immortale grazie alla parte che Paolo Villaggio mi diede in Fantozzi subisce ancora, ma le giuro che non mi assomiglia per niente». Andrea Roncato parla dei suoi inizi (e non solo) a poche ore dalla presentazione al Cinema Massimo (sabato 15 alle alle 21) de Il bar del cult, documentario che chiuderà il Glocal diretto dal verbanese Mirko Zullo e ideato e prodotto da Rocco De Vito. «Mio padre era un sagrestano – racconta – e vivevo a Bologna in una casa adiacente alla chiesa con un cortile così ampio da poterci correre in bicicletta. Più “casa e chiesa” di così».
Ci parla della sua adolescenza?
«Era inevitabile che diventassi chierichetto, e con me l’amico fraterno Gigi Sammarchi, con cui avremmo costruito una delle coppie più longeve della comicità italiana. Ci divertivamo facendo tutto quello che era proibito, dallo scolare il vino da messa in poi, ma in quel contesto cominciai anche a suonare l’organo ed ero così portato che mi sarei laureato al conservatorio in pianoforte. E così, per molti anni, il mio pubblico era composto da vecchiette che intrattenevo con musica sacra e qualche barzelletta».
Il rapporto con Gigi?
«Ci univano la parrocchia, la musica e la pallacanestro, quest’ultima per almeno due motivi. Il primo è perché a Bologna la tradizione del basket tra Virtus e Fortitudo è gloriosa; la seconda perché nei palazzetti, rispetto al calcio, le ragazze erano molto più carine e numerose».
E la musica?
«Lui alla chitarra, io al piano, cominciammo a cantare in un coro di montagna che affittava sale in parrocchia per le prove. Poi fondammo un gruppo, I ragazzi nella nebbia. Eravamo apprezzati in provincia ma non avevamo soldi così studiammo un trucco. Chiedevamo gli strumenti in prova, suonavamo il sabato, e il lunedì li riportavamo con qualche scusa. Purtroppo, il gruppo si è sciolto quando abbiamo esaurito i negozi della Romagna».
Il passaggio alla comicità?
«Il primo a scoprirci fu Francesco Guccini. Ci era presa la mania del cabaret e andavamo a vedere spesso i Gufi al Duse di Bologna dove, poco alla volta, iniziammo a portare qualche canzone comica. Anche Guccini partecipava e ci volle nel suo locale, l’Osteria delle Dame che era una specie di Derby bolognese. Facevamo canzoncine tra un numero e l’altro, poi arrivarono le prime scenette. Insomma, diventammo noti a tal punto che un giorno ci vide Bibi Bellandi, impresario tra gli altri di Celentano e Mondaini, e fu proprio lei a volerci per la sua tournée e poi a portarci in Tv con Raimondo Vianello per lo show del sabato sera di Rai Uno Io e la befana».
Andiamo al sodo: la sua fama di grande «amatore» è vera o no?
«Non confondiamo la comicità con la vita privata. Ma in ogni caso i miei personaggi non erano sessisti, anzi erano una presa in giro di quegli italiani che si vantavano di aver avuto mille donne. Pensi che quando nel 2020 ho girato Sotto il sole di Riccione, ho rifatto il ruolo di un bagnino che, da “guru dell’acchiappo”, si scopriva aver inventato tutto e, alla fine, aveva amato un’unica donna nella sua vita».
A proposito di coppie affiatate, quella con Gigi dura tuttora?
«È una delle persone più care della mia vita e in scena avevamo un’intesa semplicemente perfetta. Ma mentre io ho il tarlo della recitazione e continuo a fare l’attore – e non il comico – con registi come Pupi Avati e Paolo Virzì, lui si è stabilito in Spagna e preferisce farsi 20 chilometri di corsa al giorno per rimanere in forma».
Il regista de Il bar del cult Mirko Zullo che vedremo con lei al Massimo le chiede che ruolo vorrebbe per una commedia contemporanea?
«Se fosse “alla Tognazzi”, mi piacerebbe: ma se rifacessi un bagnino arrapato, da comico diventerei patetico».
Lo dirà ai torinesi domani sera?
«Conosco molto bene la città. Negli anni 90 ci venivo con Gigi a fare cabaret e lui aveva una fidanzata del posto. Era una fortuna perché dirigeva un’agenzia di modelle».
Non mi dica che se le faceva presentare?
«Mica una ventina come direbbe Batacchi: diciamo al massimo due o tre».