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 2025  novembre 15 Sabato calendario

Iva Zanicchi: «Sono nata con la fame perché non mi sentivo amata. Rimasi male quando mi definirono giunonica. Il bacio più emozionante della vita? Con un interprete russo»

Si chiama «Quel profumo di brodo caldo» il nuovo libro di Iva Zanicchi, un’autobiografia raccontata attraverso le ricette. 
Dopo la musica, la televisione, la politica, adesso anche la cucina?
«Guarda, tesoro, che potenzialmente sono una grande cuoca. Solo non mi hanno mai permesso di cucinare: il mio secondo marito Fausto Pinna, che era sardo, era un cuoco pazzesco e non lasciava che mi avvicinassi ai fornelli. In cucina comandava lui. Anche se poi a un certo punto mi sono stufata di mangiare solo piatti che finiscono in -eddu. Io sono emiliana, eh. Ad ogni modo quel poco che faccio mi riesce benissimo. I miei nipoti diventano matti per le mie pennette alla vodka. Ma non è quello il punto».
E qual è?
È che io amo follemente mangiare. Io vivo per mangiare, a differenza di mia figlia Michela che mangia per vivere. La mia è una fame ostinata, persistente, costante, insistente. Mi faccio di quei piatti di pasta... Sai cosa vuol dire mangiare due etti di pasta?

Ma non aveva raccontato a Porta a Porta di essere spesso a dieta?
«Ma sì, ogni tanto la faccio. Pure Michela mi stressa dalla mattina alla sera, mi dice di trattenermi per la salute, mi tratta come se avessi 80 anni, invece ne sto per compiere 86! Solo che quando sono a dieta ho l’occhio triste. Quindi con Fausto Leali, che è un buongustaio anche lui e abita come me in Brianza, ogni tanto ce ne freghiamo e andiamo a fare di quelle scorpacciate al ristorante. Lo facciamo per lo spirito. Del resto, io sono nata affamata». 
A Vaglie (Reggio Emilia), il 18 gennaio 1940. Nel libro racconta che a tre mesi assaggiò per la prima volta il pancotto. 
«È così. Da neonata avevo una fame terribile. E sai perché? Come tutti i neonati avevo percepito l’atmosfera in casa. Io non ero amata». 
Addirittura?
«Dopo due figlie femmine, i miei genitori volevano il maschio, una volta era così. Avevano persino organizzato una festa per la mia nascita ma quando scoprirono che ero femmina la annullarono. Una crudeltà inaudita a pensarci oggi. Morale, credo che il vuoto derivato dalla delusione di mio padre Zeffiro sia diventato il mio e si sia trasformato alla fine in fame».
Che nessuno riusciva a placare.
«Appena mia mamma mi staccava dal seno, cominciavo a urlare fino a diventare nera come un tizzone. Così un giorno, preoccupata, chiamò la vecchia zia Catirra. Mi spogliò, ero una bambina bellissima, sono sempre stata molto bella nuda (ride, ndr). E sentenziò: “Iva non ha nulla, non morirà, ha solo molta fame, ci penso io”. Così, a tre mesi, mi fece assaggiare il pancotto, pane raffermo condito con olio, sale e parmigiano. Un cucchiaino alla volta lo finii tutto. E smisi di piangere». 
La passione per il cibo, racconta nel libro, la prese anche da sua nonna Armida.
«Poverina, a nove anni fu mandata da suo padre in Liguria a servizio di una nobile famiglia genovese. Lì imparò a cucinare divinamente. Poi da adulta aprì a Vaglie la prima osteria dell’Appennino tosco-emiliano. Faceva una selvaggina eccezionale. Il suo ragù era uno spettacolo». 
Sua mamma Elsa, invece, era una bravissima sfoglina.
«Non c’è giorno della mia vita in cui non pensi a lei. L’ho sempre adorata. E lei adorava me. Anche quando diceva che la sua cantante preferita era Milva». 

Considerata la sua rivale.
«Quando la vedeva, mia mamma non riusciva a mascherare il suo entusiasmo. Un giorno eravamo a casa assieme, io avevo già fatto il mio primo Sanremo, c’è Milva in televisione. Così chiamo mia mamma. “Non posso venire adesso, sto lavorando la sfoglia”. Tempo due minuti ed eccola comparire con le mani sporche di farina. “Ma guardala, lei sì che è magra”. Io zitta. “E che bel colore di capelli. E anche il vestito, lei sì che può permettersi di indossarlo. E che voce… Hai sentito che voce?”. Alla fine le dissi: “Vabbè, mamma, basta, sul resto posso far finta di niente, ma sulla voce no!"». 
Ma non la infastidivano i commenti sull’aspetto fisico?
«Solo una volta ci rimasi malissimo quando in un titolo su un giornale usarono l’espressione “la giunonica Zanicchi”. In realtà ero magrissima, alta, con la vita stretta, ma il seno abbondante ingannava. Alla fine, comunque, me ne sono sempre fregata. Certo, anni dopo scoprii il segreto della linea di Milva».
E cioè?
«Ci ritrovammo assieme a Napoli nello stesso albergo, io ero già l’Aquila di Ligonchio e lei la Pantera di Goro. Io, come al solito, non avevo limiti: passavo dalla genovese alla sfogliatella, mi strafogavo di mozzarella di bufala. Milva si nutriva sempre e solo di una bistecchina di pollo con l’insalata. Un giorno le dissi: “Ma come fai a trattenerti sempre?”. Lei mi rispose: “Sono attenta a ciò che mangio. Tu ora puoi permetterti tutto, ma se continui a mangiare così vedrai… Tra qualche anno litigherai con la bilancia”. Apprezzai la sincerità della risposta. Aveva ragione lei».
Il suo piatto preferito?
Tutto ciò che si arrotola. Spaghetti o tagliatelle, in tutti i modi possibile. Aglio, olio e peperoncino. Con il tonno. Con i pomodorini. Con il ragù, ma solo le tagliatelle: lo spaghetto non sopporta sughi pesanti. Al doppio burro maestoso, ricetta di mia mamma. Oppure alla poverella, come mi ha insegnato Marisa Laurito, una specie di carbonara senza guanciale: cioè pasta condita con due uova a testa appena scottate e tantissimo burro. L’unica cosa che guardo con diffidenza è la carne».
È vegetariana?
«Non proprio. Mangio talvolta la cotoletta alla milanese o lo spezzatino. Tutto il resto non lo sopporto. Ho avuto uno shock troppo grande da bambina. Vivevamo in campagna, una volta mio padre portò a casa un agnellino. I miei fratelli ed io ci affezionammo morbosamente. Dopo qualche tempo sparì. Il giorno di Pasqua mia mamma servì l’agnello a tavola. Io capii subito. Piansi tantissimo. Presi pure qualche ceffone, era un’abitudine che aveva mia mamma, perché rovinai il pranzo della festa. Da quel momento smisi di mangiare abitualmente carne. Anche oggi lo faccio raramente, solo se è ben mascherata».
Racconta nel libro che durante una tournée negli Stati Uniti rifiutò un invito di Frank Sinatra. 
«Dopo che espressi il desiderio di conoscerlo, i miei produttori riuscirono a portarmi a una cena al Waldorf-Astoria Hotel in cui lui si esibì. Ero felice ma anche delusa perché ci misero seduti molto lontano dal palco. Così le persone al mio tavolo mi convinsero a scrivergli un bigliettino. Scrissi: “Sono Iva Zanicchi, una cantante italiana, mi piacerebbe tanto salutarla”. Glielo portarono e lui rispose: “Ti aspetto domani mattina nella mia suite al Waldorf-Astoria. Non troppo tardi, però, devo partire”. Rimasi di sasso, ma sapevo già cosa fare. Pensai che di lì a poco sarei tornata in Italia, e che avrei trovato ad aspettarmi un marito, una bambina e un succulento piatto di conchiglie al doppio burro maestoso preparate da mia mamma. Come tutte le volte in cui tornavo da un viaggio all’estero».
Durante la tournée in Unione Sovietica conobbe, invece, Alexander, «alto, occhi azzurri, modi galanti»
«Sascha, era il mio interprete, discendente di una nobile famiglia russa. Pur essendo sposata, subivo il suo fascino come un’adolescente alla prima cotta. Lui ricambiava la mia attrazione. Alla fine ci baciammo lungo la Neva, a San Pietroburgo. Fu il bacio più emozionante della mia vita, ero molto infatuata anche perché avevo forse 45 o 47 anni e non avevo mai fatto nulla di trasgressivo prima. Mi sentivo come Lara del dottor Živago».
E come andò a finire?
«Mi chiese di salire nella mia camera d’albergo. Accettai. Ma in corridoio trovai il mio primo marito che venne per farmi una sorpresa. Sascha sparì e mio marito non si accorse di nulla. Fu meglio così, avrei finito per tradirlo, poverino. Durante quel viaggio mangiavo spesso il borsch. Dopo non lo toccai mai più. Anche se il suo profumo mi ricorda ancora oggi uno dei momenti più emozionanti della mia vita».