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 2025  novembre 15 Sabato calendario

Intervista a Manuel Agnelli

Manuel Agnelli arriva coi suoi capelli lunghi da rocker e la figlia ventenne, Emma. Il Germi, nel centro di Milano, ospita le giovani band che lui scova e coltiva, ma le pareti sono tappezzate di libri: «Li ha scelti la mia compagna Francesca. L’ho conosciuta in un’osteria sui Navigli», ricorda lui, «ci andavo a leggere libri, ma in realtà andavo per lei, che lavorava lì ed era appassionata di letteratura. I libri li tenevo magari in mano al contrario. Germi è opera sua: arredamento, colori e libri... Classici che tutti dicono di aver letto, ma non sempre è vero». Il libro di Manuel esce il 18 novembre per Rizzoli: Ballate per piccole iene 2025 – Afterhours racconta anche con le foto di Mathias Marchioni e Henry Ruggeri un tour che è stato un evento per i fan di una rockband rimasta separata a lungo. Tutto nasce quando Universal propone a Manuel di ristampare Ballate per il ventennale dell’album: «Gli Afterhours erano fermi da quasi sette anni e l’idea di promuoverlo da solo mi suonava triste. Il tour era il modo più naturale e bello per farlo e un’occasione per riallacciare i rapporti con Giorgio Prette, Dario Ciffo e Andrea Viti. Quando gliel’ho chiesto, ho visto un entusiasmo commovente. E proprio l’entusiasmo era un po’ il problema dell’ultima formazione».
Chi erano gli Afterhours vent’anni fa, quando usciva «Ballate»?
«Era già un gruppo da migliaia di persone dal vivo: la gente pensa che io sia diventato famoso con X Factor e, a livello nazionalpopolare, è vero; ma gli After erano già grandi. Facevamo centinaia di date l’anno, avevamo fatto una decina di tour americani e una dozzina europei. La casa me la sono comprata prima di X Factor. Ma quello era un periodo strano. Il tour di Quello che non c’è aveva spiazzato il pubblico perché quel disco era riflessivo, scuro, senza ironia, ma c’era un motivo: fino ad allora, avevamo voluto disturbare e provocare, per alimentare una discussione, ma, ormai, nei concerti, quei pezzi erano cantati in coro, non disturbavano più nessuno. Ci dicevamo: vabbè siamo inutili, non diamo più fastidio; sì è una festa, ma non frega niente se suoniamo bene o male…».
Con le ballate inizia una stagione nuova?
«Siamo tornati al rock’n’roll, anche grazie a Greg Dulli degli Afghan Whigs, storica formazione americana: produsse il disco e fece più di cinquanta date con noi. Anche John Parish fu fondamentale: Ballata per la mia piccola iena, era un pezzo un po’ informe prima che ci mettesse le mani. Molti dei pezzi che suoniamo da vent’anni vengono da quell’album».
E lei in quel 2005, in che fase della vita era?
«Era nata mia figlia. Un cambiamento totale. Nel giro di un anno o due, hanno fatto figli tutti. Grande energia e entusiasmo».
Aveva 39 anni e, prima, immagino una vita da rocker dissoluta. La paternità era un desiderio, un optional?
«Non che avessi scelto “no figli”, ma negli ultimi anni ero stato allegrotto, più che in passato. I miei trent’anni sono stati più dissoluti dei venti. A venti, ero circondato dalla droga: l’eroina degli anni ’80 è stata una piaga; stavi attento alle siringhe nei parchi. Ricordo benissimo quando guidavo la macchina con dentro tutti i miei amici che si facevano».
Com’è che lei era l’unico a non farsi di eroina?
«Perché ho visto il male che si facevano gli altri. Però poi, da trentenne, ho avuto un crollo pesante rispetto a tutti i valori… Le amicizie, quelle nate da adolescente, le vivi come assolute, ma poi in quel concetto di assoluto non ti ritrovi più. Ho vissuto il crollo di quel sistema emotivo e, un po’, sono crollato anche io. Ho perso amici; alcuni morti; altri hanno cambiato vita. E io ho lasciato un ambiente che mi stava uccidendo: la musica mi ha davvero salvato. La routine del musicista rock esiste».
Qual è questa routine?
«Ho conosciuto musicisti che vogliono fare prima i bohémien che i musicisti, affascinati dallo stile di vita più che dalla parte creativa. Sono anche divertenti, però alla fine fanno tristezza, specie a una certa età. Io invece la vita rock l’avevo avuta da ragazzino. A 17 anni ero a Londra, a 19 anni nella Berlino col muro. A 24 ero al New Music Seminar di New York... Lì respiravi un’energia che spingeva verso l’alto. Sentivi che lo spirito era: se sei bravo, voglio essere come te, non importa da dove vieni. Mentre in Italia, se hai successo, qualcuno pensa sempre che giochi sporco. Per cui, quando è arrivata la crisi, la musica e la predilezione della parte creativa su quella bohémienne mi hanno salvato. Letteralmente».
Perché, lei che a X Factor è stato il coach dei Måneskin diventati famosi in America, non si fermò negli States?
«I Måneskin hanno dimostrato che il rock’n’roll è un linguaggio universale. Siamo noi a considerarlo ancora anglosassone: non è che la ruota, inventata dai Sumeri, possono farla solo i Sumeri. I Måneskin sono persone del mondo: italiani e romani, ma senza complessi di inferiorità. Noi potevamo provarci, ma ci abbiamo pensato troppo tardi: per farcela, bisognava trasferirsi per un paio d’anni; ma a quel punto era nata mia figlia e avevamo quarant’anni. Restare qui è stata la scelta giusta: identità, qualità della vita, collaborazioni in musica, radio, tv, teatro. La visibilità che mi ha dato la tv non mi è servita per costruirmi la piscina, ma per fare cose in campi diversi. Senza, difficilmente avrei fatto in teatro, da protagonista, il tour di Lazarus di David Bowie».
Con gli Afterhours
«Siamo invecchiati fisicamente, ma l’umorismo e l’energia sono quelli di sempre»
In tv, il giudice severo quanto le veniva naturale?
«Totalmente. Era l’occasione per raccontare la mia visione della musica contro numeri, algoritmo, successo facile».
Quest’anno, non le manca X Factor?
«No: altrimenti l’avrei fatto. Avevo Bowie a teatro e il tour di Ballate: metterci altro avrebbe rovinato tutto. Inoltre, il talent è diventato più televisivo e meno musicale e rischiavo di diventare grottesco: quello che “dice la battuta cattiva”. Avevo già detto quello che dovevo dire».
Quindi niente dissapori con gli altri giurati?
«Io ho sempre avuto dissapori con gli altri giurati, nel senso che molti hanno una visione diversa dalla mia rispetto a cos’è la musica e perché si fa. Questo però non mi avrebbe evitato di stare lì a fare la mia parte, fra l’altro, prendendo tanti dollaroni».
Com’è stato ritrovare gli Afterhours «invecchiati ma uguali», come scrive?
«Fisicamente, tremendamente invecchiati, ma con lo stesso senso dell’umorismo e gli stessi caratteri. Solo, più domati dalla vita: più consapevoli, più capaci del controllo delle distorsioni emotive. Niente è stato difficile: sul palco è arrivata energia positiva. Il pubblico l’ha sentito: feedback altissimo e tre generazioni a pogare, cioè a saltare e far casino. Pochissimi telefonini: il pubblico era parte di ciò che succedeva, non spettatore».
E in tour, stavolta, l’ha seguita sua figlia.
«Sì, portava gli amici e pogava su canzoni mie: per me, è stato meraviglioso. Anche Emma è musicista, suona in una band promettente. Questa generazione mi piace: sto lavorando musicalmente con loro, il progetto Carne Fresca promuove un’ondata di artisti che in tre-cinque anni spazzerà via quello che c’è. Ho creato un festival, le band hanno aperto il nostro tour, prepariamo la compilation. Tengo ai giovani. Quelli di oggi hanno sogni, sono consapevoli di stare male, non sono materialisti. E scendono in piazza. Io, ai concerti, dico: non state a casa a schiacciare bottoncini».
L’anno prossimo compie 60 anni: che effetto le fa?
«Farò un anno sabbatico in giro per il mondo. Finora non ho viaggiato, sono “stato in tour”. Voglio incontrare la gente per ciò che sono, non per ciò che faccio».
Tra le foto del libro, ce n’è una che ama di più?
«Quella con l’abbraccio finale della band. In quel minuto, ci raccontavamo le idiozie a caldo: a me è caduta la bacchetta; a me cadevano i pantaloni... Finivamo sempre ridendo. Sono stati momenti unici. In passato, l’abbraccio finale non lo facevamo».
Era la leggerezza della maturità?
«No, è la pesantezza della maturità che ti porta a essere leggero».