La Stampa, 14 novembre 2025
L’uomo ha sempre giocato a fare Dio ma oltre alla scienza c’è bisogno dell’etica
«Giocano a fare Dio», diciamo spaventati riferendoci a coloro che intendono riprogettare l’essere umano tramite tecnologie sempre più pervasive, applicate questa volta non più su macchine e computer ma sugli stessi corpi umani. In realtà l’umanità ha sempre cercato di fare Dio, non a caso ci siamo dichiarati suoi figli, proclamati “a sua immagine e somiglianza”, quindi cosa c’è da stupirsi se ora proseguiamo nell’impresa di emulare il Padre celeste? Da sempre i figli desiderano essere come il padre, anzi persino più forti di lui. E poi scusate, che male c’è nel cercare di prevenire le svariate migliaia di malattie genetiche che minacciano il formarsi degli esseri umani nel seno materno, in quei momenti in cui Dio Padre (sempre per stare alla metafora del giocare a fare Dio) si distrae un po’ e invece del corretto numero di cromosomi ne lascia posizionare uno in più o uno in meno, generando irreversibili malformazioni nei bambini che nascono e un dolore abissale nei genitori? E che male c’è nel prevenire la degenerazione delle cellule nervose che conduce un essere umano a vivere gli ultimi anni senza consapevolezza di sé, in preda alla demenza, con il conseguente indescrivibile strazio dei parenti e un sordo odio verso la vita per il suo beffardo destino? Domande retoriche, la cui unica sensata risposta è nessun male; anzi, solo tanto auspicabilissimo bene. La scienza deve fare il suo mestiere, che, come dice il nome dal latino scire, consiste nel “sapere": nell’incrementare sempre più la conoscenza. Sembrerebbe quindi che non vi sia nulla da temere e che occorra solo salutare con gioia le notizie fornite da questo giornale nei giorni scorsi riguardanti il progetto “Preventive” e le intenzioni (forse già ben più che solo tali) di Altman, Amstrong, Musk e altri miliardari che mirano a creare “uomini geneticamente modificati”.
L’umanità, però, non è solo conoscenza e azione, è anche coscienza e dubbio, cioè riflessione sull’utilizzo della conoscenza ottenuta, la quale può essere usata in vari modi: o per i benefici di tutti, o per i privilegi di pochi; o per curare malattie, o per allestire un catalogo di caratteristiche biologiche da mettere in vendita; o per il bene comune, o per il profitto di privati. Perché il punto che tendiamo a dimenticare, inebriati come siamo non dalla serietà della conoscenza scientifica ma dal senso di onnipotenza che la società dei consumi infonde nelle menti per condurle a consumare sempre più, è che il bene e il male esistono per davvero e che non tutto quello che si può fare è davvero lecito fare. Inebriati dall’ideologia vincente ai nostri giorni denominabile “scientismo”, dimentichiamo la lezione di Kant secondo cui sono tre le domande alla base dell’umano: 1) che cosa posso sapere? 2) che cosa devo fare? 3) che cosa mi è lecito sperare?
Accanto al sapere c’è anche il dovere, oltre alla conoscenza c’è anche la coscienza. Il che significa che noi, oltre alla scienza, abbiamo bisogno dell’etica (e della spiritualità, se prendiamo sul serio anche la terza domanda). Che sia necessaria l’etica appare del tutto evidente non appena si riflette sul fatto che un conto è usare le biotecnologie per sconfiggere le malattie genetiche, un altro conto è selezionare dal menu eugenetico il colore degli occhi, l’altezza e l’intelligenza del figlio in arrivo (privandolo così della sua irriducibile differenza rispetto ai genitori, fondamento della sua originarietà e della sua libertà). Insomma, se è vero che a seguito delle tecnologie sempre più performanti siamo entrati dentro un mondo del tutto nuovo, è altrettanto vero che siamo pur sempre rimasti dentro il mondo di sempre che necessita di una bussola del bene e del male, se vogliamo custodire la libertà.
La libertà è un bene prezioso ma fragile, si può perdere facilmente e di sicuro viene meno laddove non vi sia imprevedibilità e indeterminazione. In assenza di queste dimensioni funzioneremo di più, ma sentiremo di meno; saremo sempre vincitori, ma saremo privati del prezioso sale che viene dalla sconfitta e dal saperla rielaborare.
Il fisico Alessandro Vespignani dichiarava ieri a questo giornale che ormai da anni noi siamo «intelligenze aumentate». È proprio così? È davvero aumentata in questi ultimi anni l’intelligenza degli esseri umani? La maggiore performatività tecnologica ha davvero prodotto un aumento dell’intelligenza individuale? Io non ne sono per nulla sicuro. L’intelligenza umana infatti non si caratterizza solo per essere “problem solving”, ma anche per sapersi costituire come “problem posing”, cioè per la sua dimensione critica e dubitativa. Funzionare di più e risolvere più problemi non significa necessariamente essere più intelligenti. Senza calcolare che questa “intelligenza aumentata” è stata finora ben lungi dall’aumentare la felicità e la serenità, ma ha semmai ha prodotto uno spaventoso aumento dell’ansia da prestazione per essere tutti all’altezza di questa “intelligenza aumentata” che ci vuole tutti più smart e più tech. Ma a che serve questo aumento dell’intelligenza se coincide con la diminuzione della felicità? Mi viene in mente questa domanda evangelica: “A che serve a un uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?”. Il concetto di anima esprime il centro vitale di ognuno di noi. Noi siamo intelligenza, certo, ma non solo; siamo anche sentimento, passione, bisogno di senso. L’intelligenza ci offre conoscenza, ma è solo il sentimento che ci offre il significato. E ognuno di noi è ultimamente una domanda di significato. Questo non si può limitare al fare e all’eseguire, perché richiede anche il non-fare, il contemplare, il tacere, ovvero ciò che i nostri padri chiamavano otium e che ritenevano più prezioso del pur essenziale negotium.
Sempre Vespignani dichiarava che programmare il biologico con strumenti digitali è «un processo inevitabile», ma non dobbiamo preoccuparsi perché l’obiettivo «non è progettare persone ma ridurre la sofferenza e la mortalità», cioè la prevenzione e la cura. Aggiungeva inoltre che «il potenziamento genetico è una promessa fuorviante e una deriva eticamente inaccettabile» e che non si deve «aprire la porta al mercato». Parole bellissime che si traducevano nell’auspicio della necessità di regole chiare per l’operatività tecnologica nell’ambito clinico e biologico al fine di tenere il mercato a distanza e di conseguenza nella necessità di una solida cooperazione internazionale, visto che la scienza e la tecnologia non conoscono confini e nessun paese può regolarsi da solo.
Il problema, però, qual è? È che la scienza corre a passi da gigante, mentre il diritto e la politica che devono provvedere alle regolamentazioni auspicata arrancano lenti come una lumaca. È quindi necessario tener conto di questa doppia velocità prendendo la seguente decisione: che sia vietata ogni applicazione dell’IA e delle tecnologie sulla biologia umana prima che le normative siano definite in modo chiaro e trasparente per il mondo intero. Non si tratta di fermare la scienza, si tratta di custodire l’umanità. Perché se veramente si vuole non «aprire la porta al mercato», chi può davvero tenere chiusa quella porta è solo la politica in quanto costruttrice di diritto. Di fronte alle biotecnologie che possono mutare definitivamente la natura umana aumentandone l’intelligenza e diminuendone il cuore, abbiamo l’urgente necessità di una governance mondiale. Penso che i rettori e i senati accademici delle università di tutto il mondo, gli imprenditori più responsabili, i leader delle religioni mondiali, gli intellettuali più seguiti debbano coordinarsi tra loro per far sentire la voce dell’umano. Prima si stabiliscano le regole chiare per la salvaguardia dell’umanità, poi si intraprenda il lavoro biotecnologico sull’essere umano. Solo così si potrà davvero lavorare per sconfiggere le malattie senza cadere nello spaventoso marketing eugenetico. In sé non è sbagliato “fare Dio”, ma lo si deve fare seriamente, non giocando con l’umano ma servendolo con la più alta responsabilità.