la Repubblica, 14 novembre 2025
Maggio fiorentino. Il ritorno di Gatti a tutto Beethoven
Sembrava un addio, invece era solo un arrivederci. Tanto che alla fine – andata come è andata con la Scala – Daniele Gatti torna al Maggio musicale fiorentino. Ne è direttore musicale per i prossimi tre anni, dopo essere già stato direttore principale dal 2022 al 2024. «Una questione poco più che terminologica – essere direttore musicale o principale – che non incide sul tipo di lavoro con i musicisti e con il tipo di presenza da garantire al teatro. Per entrambi gli incarichi le mansioni sono abbastanza simili», spiega il Maestro milanese appena tornato da una tournée in Cina con la Staatskapelle di Dresda, l’altra sua orchestra, durante la quale racconta di essere stato festosamente assediato da una marea di giovani ammiratori in cerca di autografo sia a fine concerto sia in albergo.
«Con Firenze riaccendiamo la macchina dopo un breve sosta al parcheggio», prosegue Gatti, che di auto e motori potenti se ne intende. «Non era nei piani. Il mio contratto era scaduto a fine dicembre dell’anno scorso, dopo un periodo ben definito fin dalla stipula con l’allora sovrintendente Alexander Pereira. Periodo circoscritto, stabilito molto prima che il sindaco di Milano mi cercasse per la Scala. E a Giuseppe Sala avevo dato la mia parola. Perciò quando Carlo Fuortes, arrivato alla sovrintendenza del Maggio, mi ha offerto di nuovo l’incarico a Firenze non ho potuto che dirgli di no, malgrado il fatto che con la città ci fosse grande affetto. Tuttavia avevo già stabilito di tornare come ospite per l’integrale delle sinfonie di Beethoven».
Un ciclo – programmato tra il 18 giugno e il 1° luglio – che adesso, dopo l’affaire Scala, segnerà invece il reinsediamento di Gatti alla guida stabile dell’orchestra del Maggio. Seguito, fra novembre e dicembre ’26, dall’integrale delle sinfonie di Felix Mendelssohn unita alla proposta dell’oratorio Elias. Con le produzioni liriche si partirà dal febbraio 2027. «L’idea dei cicli, di intessere fili rossi all’interno di un concerto o tra più concerti, mi ha sempre interessato. A Firenze ho presentato l’integrale sinfonica di Brahms, Čajkovskij, Honegger. Con la Staatskapelle ho cominciato un ciclo Mahler, autore che lì finora hanno fatto pochissimo, e mai la Settima sinfonia». Ma veniamo a Beethoven. «In quarantacinque anni di carriera il ciclo delle sinfonie l’ho diretto parecchie volte: a Londra, Bologna, a Santa Cecilia, con la Mahler Chamber e l’Orchestra Mozart, tra due anni con la Staatskapelle. Ogni volta che riprendo queste partiture le ristudio, le ripenso, anche confrontando diverse edizioni. E accade che mi salti all’occhio una linea strumentale che in passato avevo magari trascurato, o che comprenda meglio il sapore di un tema». Di Beethoven, Gatti è attratto dalla modernità.
«Mi calo nel primo Ottocento e vedo, con gli occhi dell’epoca, quanto è stata dirompente e rivoluzionaria questa musica. Punto a cogliere ciò che allora risuonava moderno, non leggerne le partiture secondo l’ottica odierna di modernità». Tuttavia c’è il rischio che certe sinfonie – come l’Eroica, la Quinta, la Nona – risultino usurate per l’impiego massiccio che ne è stato fatto dall’industria culturale. «Non succede se direttore e orchestra bandiscono la pigrizia interpretativa e se l’ascolto è libero, aperto. È come per il Vangelo della domenica: anche ascoltato decine e decine di volte negli anni, ogni volta però può toccarci in maniera differente. E comunque, se a un certo punto un direttore avverte che con una partitura il rapporto si è logorato, allora la lasci, ci ritornerà poi. A me è capitato con la Patetica di Čajkovskij. Avevo trent’anni, non ne potevo più da quanto volte l’avevo diretta. Per un quindicennio l’ho messa da parte. Una cosa che invece non capiterà mai con Falstaf : a sessantaquattro anni sento che questo Verdi tardo mi è sempre più vicino». E di Mendelssohn che pensa Gatti? «È il contrario di Beethoven. Viene dopo, ma si ispira alla musica di prima: al respiro, all’eleganza, all’equilibrio di Mozart. Tanto Beethoven apre al futuro quanto il cosiddetto ‘romanticismo felice’ di Mendelssohn resta circoscritto a un malioso epigonismo della classicità. Ed è questo suo risiedere in una torre d’avorio che mi affascina».
Al Teatro del Maggio Gatti coabita con Zubin Mehta, direttore onorario a vita. «Un monumento. Da studente al Conservatorio di Milano lo andavo ad ascoltare dal loggione della Scala. A Firenze l’ho conosciuto: con me è stato generoso e mi ha dimostrato stima. In quattro decenni al Maggio ha modellato un’orchestra duttile, con un bello slancio. Il mio lavoro con gli strumentisti è ovviamente diverso dal suo, ma soltanto nelle sfumature musicali, nelle lenti indossate per osservare il repertorio, poiché per il resto Mehta mi ha consegnato un gruppo vincente, che ha sempre voglia di far bene».