la Repubblica, 14 novembre 2025
Adinolfi, dai crac finanziari alla mafia, poi la scomparsa nel nulla. Un mistero che dura da 31 anni
Paolo Adinolfi era un magistrato con una lunga esperienza alla sezione fallimentare del tribunale di Roma. Un uomo di rigore antico, educazione severa, senso dello Stato, schietto, in un’epoca in cui lo Stato iniziava a frantumarsi tra poteri opachi, affari sporchi, complicità silenziose. Lontano dai salotti, estraneo alle correnti della magistratura. Si muoveva tra fascicoli che nessuno voleva toccare: crac che bruciavano patrimoni, società “di carta” che mascheravano flussi di denaro, fallimenti che aprivano cassetti pericolosi.
È in quel perimetro che Adinolfi incrocia figure pesanti della Roma anni 90. Enrico Nicoletti, cassiere della Banda della Magliana, è uno di questi. Le società, gli immobili, i fallimenti che sfiorano il cassiere della banda compaiono nei dossier che finiscono sulla scrivania del giudice. Non in modo diretto, non sempre esplicito. Adinolfi non chiude un occhio, non rallenta, non attenua. Capisce fin troppo bene che quel rigore lo espone. Lo porta vicino a storie che la Capitale preferisce tenere nell’ombra: l’intreccio tra malavita, imprenditori rispettabili, intermediari dei servizi, banche e costruttori. Un ecosistema che negli stessi anni, in altre forme, ruota attorno a Massimo Carminati, ex Nar, un estremista di destra che faceva da ponte tra criminalità e poteri istituzionali.
Nel giugno del 1994, un mese prima che Adinolfi svanisca nel nulla, Tommaso Buscetta parla nell’aula bunker di Rebibbia. Fa il nome di Nicoletti. Lo descrive come uomo di raccordo, figura chiave nella Roma criminale che conta. Quelle parole aggravano il clima. È in quel contesto che Adinolfi lavora, spesso da solo, sempre più convinto di dover riferire ad altri magistrati del penale ciò che vede nei fallimenti che istruisce. Pochi giorni prima di scomparire, chiama il pm milanese Carlo Nocerino, che indaga sul crac dell’Ambra Assicurazioni. Gli promette informazioni utili. Appuntamenti, contatti, un filo da tirare.
Il 2 luglio 1994, quel filo si spezza. La sua sparizione è immediatamente circondata da imprecisioni, omissioni, negligenze. Indagini condotte male, testimonianze non raccolte, piste ignorate. Non un depistaggio spettacolare, ma un lento svuotamento di senso: una rimozione metodica. Il fascicolo passa alla procura di Perugia, competente ogni volta che un magistrato romano è coinvolto. Dopo un anno, si archivia: nessun riscontro, nessuna prova. Si è persino cercato nel lago Trasimeno.
Nel 1996, una nuova fiammata. Un faccendiere siciliano racconta agli inquirenti che Adinolfi è stato ucciso dalla Banda della Magliana. Dice che stava per parlare di legami tra settori deviati dei Servizi e società fantasma per la compravendita di immobili. Dice che glielo aveva confidato Mario Ferraro, colonnello del Sismi, poi trovato impiccato nel bagno della sua abitazione. Indica anche un luogo: i terreni attorno alla villa di Nicoletti. Si torna a scavare, viene incaricato un geologo. Anche questa volta, niente. E Perugia archivia di nuovo.
Nell’atto finale della chiusura delle indagini, il pm Alessandro Cannevale che all’epoca era il titolare dell’inchiesta, scrive parole che sono al tempo stesso una constatazione e una resa: «Le indagini sono rimaste ben lontane dal raggiungere risultati utili all’esercizio dell’azione penale. Non appaiono praticabili ulteriori attività e solo sopravvenienze future, attualmente imprevedibili, potrebbero rendere significativi e rilevanti i risultati fin qui acquisiti».
Una formula che congela tutto. Che seppellisce la vicenda. Che legittima l’oblio.
Adinolfi non era un uomo in fuga. Non aveva debiti, né amanti, né ombre personali da nascondere. Aveva una famiglia che amava profondamente, una vita sobria, un’idea verticale del lavoro. È stato portato via perché lavorava dove qualcuno potente non voleva, e quindi per qualcuno non doveva.
Trentuno anni dopo, resta un’assenza che non è stata spiegata e un mistero che Roma sembra voler espellere dalla propria coscienza. Ma resta soprattutto il profilo di un magistrato che aveva deciso di andare avanti. Un uomo finito sulla traiettoria del potere criminale della Capitale degli anni Novanta. E che, per questo, non doveva più esistere.