Corriere della Sera, 14 novembre 2025
Il cassiere di De Pedis, l’ultima mattinata e l’incontro mancato. Il giallo e le piste
Il 2 luglio 1994 era un sabato. Caldo terrificante, oltre i 40 gradi. «Roma batte l’Africa», titolavano i giornali. Paolo Adinolfi, 52 anni, consigliere presso la Corte d’appello, residente in un bel condominio di via della Farnesina, uscì di casa e sparì. Lui e Nicoletta Grimaldi, rampolla di ottima famiglia, cresciuta alle Orsoline, si erano sposati nel 1970, dopo il colpo di fulmine nelle aule di Giurisprudenza della Sapienza. Vinto il concorso in magistratura a 28 anni, era stato assegnato a Milano, dove la coppia si era trasferita. Ambientamento non facile, anche se la casa era stata presto rallegrata dall’arrivo di una bambina, Giovanna. Ma poi, soprattutto in Nicoletta, la nostalgia di Roma aveva prevalso, ed erano tornati in tempo per la nascita del secondogenito, Lorenzo, oggi avvocato.
La famiglia al primo posto. La parabola umana del giudice, ora cercato sotto la Casa del Jazz, non può che partire da qui: un uomo pio, che amava collezionare presepi. Ma inevitabilmente, all’indomani del blitz nella ex residenza-fortino del cassiere della banda della Magliana, è anche la sua vita professionale a tenere banco. Era la Roma di fine secolo: i tempi di Tangentopoli e dell’area grigia tra gangster, affaristi e politici.
È in questo contesto che il magistrato Adinolfi, che s’era già conquistato fama di «rompiscatole» a Milano, scegliendo di diventare giudice al Fallimentare di Roma «firmò la sua condanna a morte», come hanno sempre ventilato, con immensa amarezza, i familiari. In viale Giulio Cesare, Paolo era rimasto un decennio. Fino a che, poche settimane prima di sparire, aveva ottenuto il trasferimento da lui richiesto a causa di uno smacco subito: un collega, approfittando del fatto che era in ferie, aveva annullato una sua sentenza di fallimento a carico di una società in odore di malaffare, e lui s’era infuriato.
Le prime ore di un giallo sono spesso decisive per risolverlo. E ciò vale due volte nel caso Adinolfi. Uscito di casa attorno alle 9, dopo una discussione con la moglie (non aveva voglia di accompagnarla a Spoleto, per il Festival dei due mondi), il giudice compì sette spostamenti in preda a una strana frenesia. Eccolo, il film di quella mattina. Paolo alle 9.30 si presenta allo sportello bancario del Tribunale civile, per trasferire il conto corrente, e subito dopo nell’ufficio postale, per pagare alcune bollette; poi va in archivio, dove ritira una sentenza relativa all’esproprio di un terreno, stavolta però, racconta l’impiegato, non da solo, ma «in compagnia di un giovane di 30-35 anni, alto più o meno come lui, circa un metro e 65». Chi era questo mister X?
Alle 10.30 altro spostamento, nella cancelleria della Corte d’appello (dietro Piazzale Clodio), dove preleva due fascicoli. E siamo alla mossa più sorprendente. Attorno alle 11, Adinolfi raggiunge il Villaggio Olimpico, al Flaminio, ed effettua un’operazione degna di dottor Jekyll/mister Hyde: spedisce un vaglia di 500 mila lire alla moglie. Perché, visto che stava per tornare a pranzo? Altrettanto indecifrabile il ritrovamento delle chiavi di casa e dell’auto nella buca delle lettere dell’anziana madre, ai Parioli, e l’avvistamento sul bus 4, all’altezza di via XX Settembre, da parte di un avvocato che si precipitò a riferirlo in Questura e poi ritrattò.
Ora, mentre la polizia scava, un dato è certo: è proprio in questo zig-zag all’apparenza nevrotico, che si cela il buco nero, la possibile chiave risolutiva del giallo, vale a dire l’«aggancio» del giudice «scomodo» da parte di qualche suo nemico, che potrebbe averlo obbligato (magari con la pistola puntata sulla schiena) a mettere in scena l’allontanamento volontario, per occultare il movente dell’azione criminale. Eccoci così alle piste, montate e sgonfiate in un corto circuito mediatico dolorosissimo per la famiglia.
Nei mesi successivi, le ipotesi più facili vennero giù come birilli. Non un malore, perché nessuno si fece vivo da ospedali o cliniche; non un suicidio, perché Paolo «stava bene, era felice nel privato e motivato dal nuovo incarico in Corte d’appello», testimoniarono i parenti; non un amore segreto, del tutto incompatibile con il suo profilo, eppure sussurrato senza prove da fonti forse non disinteressate, in Tribunale; e neanche una crisi mistica, dato che furono passati al setaccio praticamente tutti i conventi d’Italia. Restava – e resta – la pista più tremenda: un caso di «lupara bianca» contro un servitore dello Stato «troppo» irreprensibile.
L’antefatto più citato come «scintilla» fu il crack dell’Ambra Assicurazioni e della capofila, la finanziaria Fiscom, di cui Adinolfi aveva decretato il fallimento (poi revocato) nel 1992. Le triangolazioni che la sparizione del giudice con la schiena dritta fanno affiorare ancora oggi sono quelle (già certificate da altre inchieste) tra banda della Magliana, eversione nera, mafia. E non è finita: l’appuntamento preso dallo scomparso per la settimana seguente con un collega di Milano, Carlo Nocerino, che indagava sull’Ambra, e l’entrata in scena, nel 1996, del faccendiere pentito Francesco Elmo, secondo cui Adinolfi era stato ucciso dalla Magliana su ordine di 007 deviati, aggravano il quadro. Da quelle rivelazioni scaturì una prima tornata di scavi.
Oggi, ci si riprova. Dando seguito a un presagio che Lorenzo Adinolfi aveva confidato al cronista qualche anno fa: «Il dubbio che il corpo di mio padre sia davvero sotto la Casa del Jazz mi ronza continuamente in testa. Se mi aiuta a trovarlo e ad avere un luogo in cui piangerlo avrò raggiunto lo scopo della mia vita».